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I Personaggi Vitaliano Marchini
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copyright Don Cesare Amelli
I primi anni
Antonio Vitaliano Marchini nacque a Melegnano il 18 febbraio 1888 da Angelo e da Maria Stella Maestri; il padre era oriundo di Carpiano ed esercitava l’arte del cordaio, la madre veniva da una famiglia di Cervignano e già da bambina era stata avviata al lavoro di cucitrice. Si sposarono il 23 aprile 1887. La madre morì pochi giorni dopo per complicazioni dovute al parto, nonostante le cure presso l’Ospedale Predabissi di Melegnano. E così Vitaliano il 7 marzo dello stesso anno rimase senza madre. Frequentò le scuole elementari a Melegnano ed ottenne la licenza al quinto anno compiuto sotto la guida del celebre maestro Alfonso Pirani. Vitaliano aveva dodici anni ed il padre pensò di trovargli un posto di lavoro. Lo condusse a Milano presso la nonna materna Teresa dicendole: “Senta, io le consegno Vitaliano perché si trovi da lavorare e si guadagni da vivere”. Ma il piccolo fanciullo si guardava attorno nella casa milanese ed allungava gli occhi fuori dalla finestra, incantato ed impaurito dal traffico agitato, dalla gente che camminava velocemente, dalle carrozze e dai cavalli al trotto che scalpitavano sui lucidi selciati di una metropoli, dai palazzi non mai visti così alti. Fu portato via dal suo paese amato nel cuore domestico per antico sapore borghigiano, animato a festa dal mercato del giovedì, dove, con popolare senso di umanità, la gente si voleva bene nei rustici umidi cortili pieni di tanta vita. La sua Melegnano, che non oltrepassava i settemila abitanti, tutta raccolta attorno alle chiese dei suoi quattro rioni, era ormai alle spalle. Il padre intanto insisteva: “Cara Teresa, io a sei anni sono andato allo stabilimento, lui a dodici si trovi un mestiere’. Con il cuore pieno di sofferenza lasciò il piccolo Vitaliano al destino. Gli diede un bacio e gli disse ancora: “Fai giudizio e stai qui colla nonna. A casa verrai solo alle grandi feste”. La nonna lo tenne contenta e premurosa per tanti anni. Il padre si risposò ed ebbe un altro figlio, Ettore. Vitaliano fu garzone fornaio, garzone muratore, garzone marmista. Durante il lavoro gli capitava di passare spesso davanti al monumento delle Cinque Giornate, un’opera dello scultore Giuseppe Grandi, un capolavoro che, diceva Vitaliano, “mi ha soggiogato per tanti anni della mia gioventù e maturità”.
Le faticose affermazioni
Presso la bottega del marmista egli squadrava lastre di marmo, le doveva levigare e poi portarle ai clienti, con la paga di due lire ogni settimana: un lavoro pesante per lui garzoncino artigianale che doveva iniziare il lavoro alle ore sette fino a sera con le candele. Ma nel cuore si risvegliava una vocazione e Vitaliano la coltivò: “Ho fatto conoscenza del marmo che mi ha dato agio nelle ore libere di poterlo scolpire, e dare ad esso o un volto o un mazzo di fiori o anche una stramberia”. Intanto si diede una propria istruzione sul disegno e sulle rappresentazioni grafiche. La sera in casa, una povera casa popolare, schizzò il suo primo lavoro: il Ritratto della nonna; poi, il secondo disegno: l’Autoritratto. Nelle giornate di festa si applicava alla lettura su libri e su giornali: “Studiai qualunque stampa che mi veniva tra le mani; volevo liberarmi dell’ignoranza”. Ma con il crescere nel fisico e nella ragione capì quanto dura sarebbe stata la strada che conduceva all’Arte. Ma volle migliorare. Fu accolto presso un gruppo di abbozzatori di sculture in marmo, lavorò duramente ed imparò tante cose che gli sono servite come mestiere e “capìi, disse, iI segreto delle espressioni che si possono dare al marmo, al legno ed ai metalli". Finalmente poté trovare un bugigattolo con un po’ di luce, e diede mano alla creta. E modellò, come primo lavoro di scultura, la Testa di un bambino che doveva esprimere un carattere strano. Questo primo lavoro capitò nelle mani di un amico pittore, il pittore Andreoli e glielo pagò lire cento, una vera fortuna inaspettata: la Testa dei bambino fu esposta alla Mostra Permanente di Milano ed il nome di Vitaliano Marchini venne citato dai giornali. Aveva 18 anni. La strada dell’arte era aperta. Frequentò lo studio dello scultore Luigi Panzeri e nel 1908 scolpì un busto in gesso del maestro elementare di una volta, Alfonso Pirani, per il quale modellò pure una targa che venne fusa in bronzo dalla ditta Piazza di Milano e che fu consegnata all’amato maestro quando gli ex alunni vollero festeggiarlo il 29 giugno 1908; attorno a Pirani in quel giorno si trovavano tre giovani futuri artisti melegnanesi: Vitaliano Marchini, Stefano Bersani che disegnò la copertina per l’album dei ricordi del maestro, Italo Martinenghi che regalò al maestro un ritratto ad olio con la cornice in giunco che era opera e dono dell’ex allievo Carlo Pagnamenti. Lavorò con tanto entusiasmo, meditò sulle grandi opere del passato, specialmente sulle sculture. Si creò un suo metodo di vedere e di sentire. E qui incominciarono le aspre critiche. Diceva Marchini: "Capire e operare diverso dagli altri, non era una maniera, ma un credere nella propria volontà di esprimere “. Nella piccola stamberga di via Canonica fece tanti studi e tentativi, infinite prove di scultura, schemi, idee, progetti, realizzazioni. E tentò qualche volta di esporre le proprie opere in diverse mostre artistiche, ma esse vennero respinte. Non disarmò. Nel 1910 con Un Autoritratto tentò alla Biennale di Venezia. La Giuria internazionale accettò la scultura; non solo, ma essa venne poi acquistata da un ricco signore: si erano aperte alcune porte e le faticate speranze. Marchini aveva 22 anni nel 1910 e, nell’entusiasmo del successo alla Biennale, partecipò al Concorso per l’Accademia di Brera in Milano, un concorso dotato di ricchi premi per i molti lasciti e donazioni finanziarie per i migliori classificati. Vitaliano non aveva ancora fatto una “statua” completa, ma ne creò una su un modello di ragazzo che conosceva e diede come titolo “Prime fatiche”: la Giuria gli assegnò il premio della donazione Tantardini di lire 2.500. La via sembrò divenire ormai meno difficoltosa; nel 1912 ecco il concorso per il premio accademico “Fumagalli” di scultura, e vi partecipò con il gruppo marmoreo “Piccola madre": la Giuria gli assegnò il premio di lire 3.200. La stampa parlò di lui diffusamente, si ebbe l’impressione di essere davanti ad un vero e robusto artista. Ed il primo frutto dolce e concretamente soddisfacente arrivò l’anno dopo, 1913, quando il Consiglio direttivo dell’Accademia di Brera lo nominò Socio Onorario. Le somme ricevute nei concorsi non soltanto gli offrirono l’ampia possibilità di seguire meglio e con maggiore tranquillità i suoi studi ed impegni culturali, ma anche lo spronarono a migliorare la qualità artistica dei suoi lavori: il suo nome già era fuori delle mura di Milano. Un amico, nel 1914, gli affidò l’incarico di costruire una cappellina in marmo con un bassorilievo raffigurante San Francesco d’Assisi che riceve da Cristo le stimmate, e che doveva essere posta in un paesino della Brianza. Iniziò, con questo lavoro, l’arte sacra, arte che coltiverà per sempre. Venne la grande guerra 1915-1918. Marchini fu al fronte, prima come semplice fante al 7° Reggimento di Fanteria, poi come sottotenente e successivamente tenente nel 2° Reggimento degli Alpini.
La maturità
Ritornò dalle armi. E ritornò al suo quotidiano impegno a Milano. Ebbe l’impressione che la gente fosse cambiata: “La modestia, l’amabilità, la sincerità, l’armonia, tutto il passato era sparito; non c’erano che musi lunghi, arcigni cattivi:" era il volto popolano che la guerra vinta e finita aveva creato”. Così diceva. Marchini ricominciò. Ebbe la ventura di trovare un grande personaggio varesino che aveva deciso di donare alla chiesa di Sant’Ambrogio in Varese una scultura da collocare in alto sul portale dell’ingresso del tempio: ne risultò una figura di Sant’Ambrogio fra il popolo ed i dotti. II lavoro non piacque al parroco, ma, disse Marchini: “lo che lo vidi dopo tanti anni, mi persuasi che quella mia scultura resisteva al tempo”. In questi tempi fu inaugurata la nuova facciata del duomo di Domodossola, benedetta dall’arcivescovo Gilla-Gremigni, opera dell’architetto Giovanni Greppi. Marchini fu incaricato di scolpire due statue rappresentanti i santi “Gervasio e Protasio” collocati ai fianchi del rosone centrale, che la stampa locale definì “i bambolotti del duomo”. Dovette pensare intanto ad accasarsi e si sposò a Melegnano il giorno 8 agosto 1921 con Piera Zucchelli di Edoardo e di Giovanna Tamini, nata a Zelobuonpersico il 2 settembre 1888. Appena sposati si stabilirono in Via Roma, ma poco dopo trovarono casa in Via Oberdan numero 2, con loro viveva la sorella della moglie, Enrichetta. Poi tutta la famiglia emigrò a Milano il 17 luglio 1939 in un appartamento in Via Solferino. Ma le sue abitudini e la sua indole, rimasero quelle della gioventù. Così Io descrive il critico d’arte Renzo Biason nel 1955: “Uomo di non alta statura, che si muove con lentezza e parla poco. Sembra impacciato, la presenza di un estraneo, pur amico, ma che guarda le sue sculture a volte con quella rapidità che impedisce di gustare i particolari e che è dovuta all’inguaribile fretta de! giornalista, preso, pressato, torchiato da mille impegni diversi, lo mette quasi a disagio. Si capisce di colpo che ci troviamo di fronte a un carattere timido, ad un uomo abituato più a parlare con se stesso che con gli altri “.Era, in realtà, un temperamento schivo e riservato, che le lunghe e solitarie meditazioni avevano reso magari anche scontroso, in ogni modo non facile, non pronto a quell’amicizia tutta di parole che si incontra ad ogni passo nella vita. Un artista riflette il suo carattere: moralità, potenza, debolezze, qualità native e acquisite, intelligenza. Tutto l’artista dice quando tocca la creta o il marmo, i pennelli o le matite, il bulino o la sanguigna: nel modo più vero e più profondo, poiché quando crea egli è solo sé stesso. Così vediamo Vitaliano Marchini artista di calma e controllata poesia, di profondo contenuto umano. Il linguaggio è moderno, contemporaneo, e assai personale, anche se riflette un lungo e devoto studio sugli antichi. La faciloneria ed il virtuosismo sono assenti e banditi dalle opere di Marchini, stanno al polo opposto. Perciò, in prima lettura, la sua scultura non colpisce: occorre guardarla con calma, rivederla, starci attorno, per capire che la semplicità non è povertà, ma chiarezza e desiderio di quell’essenziale cui ogni artista tende.
L’attività didattica a Brera
In seguito a pubblico concorso fu nominato Insegnante titolare di figura modellata nel Liceo artistico dal 10 febbraio 1928. Fu poi confermato stabilmente dopo l’esito favorevole dell’ispezione dell’Incaricato Ministeriale. Insegnò al Liceo artistico per dieci anni, serbando un costante ritmo nell’attività di docente, una spiccata ed efficace tendenza al suo insegnamento, dimostrando di possedere pregevoli doti didattiche, disciplinari e morali indispensabili alla missione educativa del magistero. In vista delle suddette eccellenti qualità fu affidata, fin dall’anno 1929-30, al professor Vitaliano Marchini la Direzione della Scuola Superiore degli Artefici annessa alla Regia Accademia. Questo posto fu continuamente confermato negli anni successivi, e tenuto con lodevole iniziativa ed attività. Fu ottimo ed energico dirigente. Per la sopravvenuta morte del professor Adolfo Wildt, al Marchini fu affidata la supplenza della Scuola di Scultura dell’Accademia di Belle Arti di Brera, un incarico che fu riconfermato per tre anni consecutivi fino al febbraio 1934 “con dignità e meriti", si scrive sul certificato di servizio. Nell’anno 1933 prese parte al Concorso indetto dal Ministero dell’Educazione Nazionale per la Cattedra di Scultura nella stessa Accademia di Brera, e la Commissione giudicatrice ebbe ad esprimersi in questi termini: “La Commissione ha fermato la sua attenzione sui signori Marchini Vitaliano, Marino Marini, Martini Arturo e Messina Francesco “. Ma fu scelto Vitaliano Marchini. Questo profilo e questi giudizi sono stati stesi fin dal lontano 13 maggio 1937 e firmati dal presidente dell’Accademia avvocato Rino Valdameri e dal direttore di segreteria ragionier Raffaele Pellicano.
La Scuola degli artefici
Essa fu fondata con decreto governativo austriaco del 16 luglio 1789 perché si avvertì la necessità di separare gli studi degli artigiani da quelli degli artisti, e Marchini ne fu uno dei direttori più attivi e più ricordati. Il corso completo era di sei anni e la popolazione scolastica era delle più strane: artigiani, operai, studenti e persino laureati. Vi era una sezione femminile assai frequentata. I giovani che uscivano da questa scuola con il diploma erano molto ricercati come disegnatori e collaboratori di architetti, decoratori e cartellonisti. Oltre che a Brera egli esercitava un’intensità didattica anche in altre parti: tre anni di insegnamento alla Scuola del Castello per le arti decorative dirigendo il settore della scultura; aprì e diresse per quattro anni la Scuola dei Marmisti del Duomo di Milano alla cava di Candoglia. Amava la scuola, ma diligeva le sue opere fino a dire: “io non ho tanta voglia di vendere le sculture che escono dalle mie mani, buone o no che siano. Le vedo sempre con piacere e non do loro che iI valore affettivo “. E il tempo passava veloce, mentre l’artista lavorava sempre, assillato da richieste di lavoro. Furono i tempi della buona sorte. Le sue sculture furono esposte in mostre d’arte nazionali ed internazionali: Roma, Milano, Venezia, Atene, Monaco. A Budapest ebbe una sala di esposizione tutta sua. A Barcellona il governo acquistò una sua opera per la Galleria Nazionale. Sue sculture furono richieste per le Gallerie di Milano, di Roma e di diverse altre città, anche se non mancavano, da alcune parti, le spine atroci: alla galleria “Pesaro” di Milano una mostra personale con una ventina di sculture ebbe una sorte grama, nonostante la presentazione del notissimo scultore Adolfo Wildt.
II declino luminoso
Per limiti di età, nel 1969, lasciò l’insegnamento e si ritirò a Mergozzo, una cittadina calma in provincia di Novara, situata nella bassa valle d’Ossola, dove la sua famiglia già risiedeva dal 1943, anno in cui perse la casa e Io studio nei bombardamenti dell’agosto 1943 in Milano. A Mergozzo riprese il suo lavoro di scultore all’ombra della bella abside della chiesa di Santa Marta e non lontano dal Montorfano dove sorge la magnifica chiesa di San Giovanni, uno dei gioielli del romanico della Bassa Ossola. Lì viveva ricevendo gli amici più cari, uno dei quali era il pittore melegnanese Agnolo Martinenghi, a lui legato da tanto affetto e da lunga filiale stima, vero testimone del valore di Marchini. Ma viveva anche di ricordi, scrivendo le sue note biografiche a noi tanto preziose come onorate reliquie di un genio, umile e forte. Soleva dire, ricordando il suo lavoro e le sue tecniche: “Non stupitevi se nella Valle del Candoglia degli splendidi graniti e delle belle pietre, io mi sia rivolto al legno per realizzare plasticamente le mie composizioni. Questi legni non sono nati da modelli in creta o in gesso. Li ho scolpiti direttamente dal tronco e dalla tavola rozza, pensando solo a comporli come li vedevo con l’occhio della mente. Infatti scolpire vuol proprio dire voler vedere, nell’informe iI di più, imponendoci di togliere iI di più e fermandoci più al sentimento che alla forma”. Non dobbiamo, comunque, dimenticare che Marchini ebbe una sua “religione” artistica. I tanti lavori fatti per le chiese (che lui chiamava “case di Dio”) e per gli Istituti di beneficenza furono ispirati da un pensiero a lui sempre presente, quando osservava di “fare questo perchè può servire ai tanti che chiedono di staccarsi dalle cose comuni per quelle più elevate”. Molti anni dopo la sua permanenza a Mergozzo diceva agli amici: “Giunsi qui a Mergozzo, paese tranquillo e sereno con un bel lago, che venne chiamato il lago dei poeti, però ora non è più perchè in questi ultimi anni lo hanno ridotto chiassoso e disordinato come tutti i bei posti dell’Alto Piemonte. Qui non è che io abbia abbandonato iI mio mestiere, no. Ho lasciato da parte il marmo. Il legno divenne la mia passione, sembra, a pensarci bene, una mancanza di rispetto alle grandi cave di granito bianco ed alle superbe cave del marmo del Duomo, cioè le cave di Candoglia. Ho fatto conoscenza con il legno e ne ho pestato di tante qualità. E dire che nel contempo ero il maestro della Scuola del marmo per gli ornatisti del duomo di Milano”. Ma per rispetto al marmo ed al granito ha costruito in marmo rosa ed in granito una Cappella dedicata alla Madonna del viandante sulla strada Mergozzo-Fondo Toce, ed una grande statua di granito bianco del Montorfano innalzata in onore di San Gaudenzio su una parete della cava stessa del Montorfano, collocata la vigilia di Natale 1966. Dopo due mesi e più di ospedale chiuse la sua intensa attività, per una lunga convalescenza dovuta ad una ferita rimasta aperta per tanto tempo. Diede il doloroso addio alla scultura mentre si sfogava a prendere tanti fogli di carta e ritagliarli e mettersi per lunghe ore a scarabocchiare ed a chiamare “disegni” gli schizzi che ne venivano fuori dalla fantasia. La nostalgia ed il richiamo dell’arte coltivata con passione religiosa per tutta la vita erano cocenti: “Sono alle porte - scrisse - degli anni ottantuno e vorrei mettere mano alla creta, ma iI freddo non lo permette ed attendo il sole che scalda. In questi giorni perfino il bel lago ed il Montorfano sono coperti di nebbia e ne siamo rattristati. Il grigio del cielo è sofferenza di anima e di corpo”. Continuava la sua meditazione interna, il colloquio con la sua anima, così come quando si trovava alla vigilia dell’esecuzione di opere impegnative. Dopo il dolore, lo splendore, il favore, la sconfitta, la crisi, la denigrazione, il successo, ecco il tramonto, il declino, il palpito che si estingue: “Oggi compio il mio 81° anno, 18 febbraio 1969. E’ una giornata grigia e molto fredda. i miei nipoti mi hanno mandato un bel vaso di fiori, dureranno pochi giorni, è iI destino delle piante delicate costrette a vivere nell’ambiente chiuso delle case nei mesi freddi. Non resterà di loro che un grato ricordo. I fiori cadranno appassiti e le foglie cadranno indurite sugli steli, come saremo noi nelle ultime nostre giornate. Forse rifioriranno nella migliorata stagione, ma noi no. Cari fiori. Siamo qui sulla solita poltrona, con lo scialle sulle estremità fredde, mentre la luce del giorno breve sta volgendoci le spalle per sparire nella notte”. Vitaliano Marchini morì il 29 luglio 1971. Immenso fu il cordoglio nel campo dell’arte e della scuola.
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