El Bö
el Mans la Vàca el Büscin
Nell’antichità, almeno fino all’epoca omerica, i bovini erano
considerati, come in tutta la tradizione indoeuropea, animali sacri, non
commestibili, anche se sacrificabili ritualmente e utilizzabili per il
lavoro e per il trasporto. In epoca romana e nel Medioevo si abbattevano
soltanto animali vecchi o inidonei al lavoro, dei quali si consumavano
soltanto le carni più tenere e le interiora. Solo a partire dai
secoli XV e XVI, la cucina di Corte comincia a considerare con sempre maggiore
attenzione la carne bovina, come attestano i ricettari dell’epoca; ma soltanto
nel corso dell’Ottocento, sotto l’influsso della gastronomia franco-tedesca
e di abitudini alimentari importate dall’America, essa assunse un ruolo
centrale nell’economia alimentare del mondo industriale. A metà
dell’Ottocento, il medico milanese Giovani Rajberti (L’arte di convitare,
1850) scriveva, con un filo di retorica, se vogliamo, che il manzo "è
il cibo per eccellenza, il principe dei cibi, il piatto della virilità,
del buon senso, del gusto severo. Il dimenticarlo in un buon pranzo (...)
mi renderebbe similitudine di chi, scrivendo la storia della letteratura
italiana, dimenticasse l’Alighieri. Sì, il manzo è il Dante
delle mense...". E qualche anno più tardi un altro milanese,
Paolo Mantegazza, patrono della scienza positivista lombarda affermava,
senza paura di smentite, che "la carne di bue è
la migliore tra le carni che servono di cibo ordinario nel nostro paese"
(Igiene della cucina, 1871). Se le carni bovine in genere non erano dunque
escluse dalla gastronomia tradizionale del territorio
lombardo, lo erano sicuramente dalla cucina popolare, nel senso che
rientravano, almeno fino agli inizi del nostro secolo, nelle abitudini
alimentari della borghesia, ma non potevano appartenere, a causa del costo,
a quelle dei contadini e degli operai. Alle classi popolari era riservata,
si fa per dire, la consumazione dei tagli meno pregiati dei bovini: la
testa, la coda, i piedini e le interiora non nobili, cioè la trippa,
l’intestino e i polmoni. I tagli pregiati, tutto ciò che stava "dietro
la testa e prima della coda", come si soleva dire, era destinato alla cucina
dei borghesi e degli aristocratici e, dalla metà del secolo scorso,
a quelle degli alberghi di maggiore rinomanza.. Proprio in questi ambienti
si sono andati elaborando, negli ultimi duecento anni, alcuni di quelli
che sono diventati i piatti più conosciuti della tradizione gastronomica
milanese: il bollito misto, il brasato di scamone,
i bruscitt, la cotoletta impanata, gli ossibuchi, il manzo alla
California, il rognone trifolato, il vitel toné, l’arrosto di vitello
al latte. Nella cucina popolare la polpa bovina non era mai di prima scelta;
si trattava di tagli ricchi di connettivo e di cartilagini, poco pregiati
per le cotture veloci: cappello del prete, fusello, fesone di spalla, collo,
geretto anteriore, geretto posteriore, aletta che, opportunamente disossati
e lardellati, e in seguito a cottura lenta e dolce, erano la base degli
stracotti e degli stufati. Nel lesso confluivano il costato e la punta,
il codone, il brione, lo scamone e il cappello del prete, insieme ad una
cospicua quantità di ossa. Dal piedino e dai ginocchi si ricavavano
i nervitt. Le cartilagini, inoltre, una volta
bollite, accompagnavano ancora calde la polenta, oppure, lasciate raffreddare,
venivano, al pari della testina, cucinate in sguazzetto, in stufato con
salvia e fagioli, oppure impanate e fritte. La büsecca,
cioè la trippa, che si faceva con la cuffia, la ricciolotta e il
fogliolo (fujiö) di vitello e che aveva
un ruolo riconoscibile nelle dinamiche rituali del Natale, era un alimento
popolare per eccellenza. Ma una non minore importanza hanno avuto, nella
economia di sussistenza del passato, le interiora meno nobili, purché
capaci, una volta nella pentola, di produrre pucia
per intingere il pane o la polenta. Si pensi al büsechin
de corada (polmone) così diffuso in tutta la regione. Un
accenno a parte merita il fegato. Nella cultura antica si pensava che questa
ghiandola fosse una delle sedi dell’anima e attraverso l’esame del fegato
degli animali uccisi si traevano auspici e si realizzavano riti apotropaici.
Dalla distillazione del fegato (anche umano) si ricavava, fino al XVII
secolo, un elixir ritenuto efficace per combattere gli effetti dell’invecchiamento.
Nell’Ottocento, sulla base della teoria positivista dell’assimilazione
diretta, si riteneva che il fegato animale fosse particolarmente digeribile
(come affermava il Mantegazza) e e soprattutto indicato, alla stregua del
sangue di cui è il maggiore contenitore corporeo, per fare sangue,
cioè per combattere l’anemia. Tale credenza è stata poi confermata
dalla moderna scienza della nutrizione: il fegato, per la sua ricchezza
di ferro, è indicato nelle anemie dovute a carenza di questo minerale
(anemie sideropeniche). Si trovano ricette con fegato, per pietanze cotte
allo spiedo o in padella, in tutti i trattati storici di gastronomia, a
cominciare da quello di Maestro Martino da Como. La preparazione più
comune erano i fegatelli, che venivano cotti con semi di finocchio e con
la reticella (di vitello, ma anche di maiale o di capretto). Attualmente
la preparazione più apprezzata è la frittura con burro e
salvia, con o senza panatura. Dal punto di vista nutrizionale il fegato
è caratterizzato da un'elevatissima quantità di vitamina
A, e da uno scarso contenuto di grassi e fibre connettivali risultando
molto digeribile. Il suo valore calorico è pertanto modesto (dalle
135 alle 146 kcal/100 g a seconda della specie animale) mentre il suo contenuto
di colesterolo è abbondante (da 300 a 600 mg/100 g). I ricettari
dei primi anni del secolo indicavano i rinomati vitelli della Brianza come
fornitori ottimali della carne di primissima qualità necessaria
per le costolette. Al giorno d’oggi, gran parte del patrimonio zootecnico
lombardo, al pari di quello di altre regioni italiane, si ricostituisce
annualmente tramite le importazioni dai paesi CEE maggiormente attrezzati
per l’allevamento (Francia e Germania), cosicché non solo il territorio
agricolo del Milanese non ha, rispetto ad altre zone della regione, quali
il Bresciano, il Mantovano e il Cremonese, una produzione bovina veramente
apprezzabile, ma non può garantire neppure l’origine locale degli
animali. Si classifica come vitello il bovino di età inferiore a
un anno e di peso non superiore ai 230 kg (180 kg per quelli di latte).
La carne di vitello si distingue da quella del bovino adulto per una maggiore
tenerezza, per il colore più rosato, per la accentuata succulenza;
ha odore latteo e minime quantità di grasso. Risulta di facile digestione
ed è meno energetico di quella di vitellone o di manzo (92 kcal
per 100 g contro le 129 del bovino adulto).
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