la gastronomia meneghina
Bertolda  torta con farina di granturco 
Büseca   trippa
Cassöla   verze e cotiche
Col e magun colli e bargigli di pollo lessati
Cotulèta  fesa di vitello impanata e fritta con il burro
Custulèta  nodino di vitello impanato e fritto con il burro
Less e mustarda  Carne lessa e mostarda
Less e salsa verda Carne lessa e salsa verde
Minestra de fasö  minestra e fagioli
Öff in chereghin  uova in tegamino
Öff in ciàpa  uova sode
Oss büs   ossi buchi con contorno di risotto
Pan de mej  pane di farina di granturco
Panetun  panettone
Pan Mejin  pane dolce di farina di granturco
Pulenta e gurgunsöla polenta e gorgonzola
Pulenta e merlüss  polenta e merluzzo tipico piatto del venerdì
Risott in cagnun  risotto con soffritto di cipolle e pancetta
Risott giald  riso con lo zafferano
Rustin negà  involtini di vitello burro e salvia
Il latte, la panna, il burro, il formaggio e i latticini in genere
E’ noto che il veneto Ugo Foscolo, per ironizzare, alla fine del ‘700, sui gusti alimentari degli abitanti di Milano e dei territori circostanti, ribattezzò col nome di Paneròpoli la città dei Navigli. Non aveva tutti i torti: quella lombarda in generale e quella milanese-lodigiana in particolare, sono indubitabilmente cucine di latte e di panna, di burro e di mascarpone, di formaggio e di ricotta; e i lombardi, tanto quelli di pianura quanto quelli della montagna e delle valli, sono dei formidabili furmagiatt. Non c’è piatto, si può dire, nel quale, prima o poi non entri un po’ di burro, un goccino di latte o di panna, una grattugiata di formaggio: Da quando sotto l’influenza della cultura barbara, longobarda e franca (si ricordi l’importanza attribuita al formaticum e al butyrum nel Capitulare de Villis di Carlo Magno), già prima dell’XI secolo e della ripresa della vita comunale, l’allevamento dei bovini si andò progressivamente sostituendo a quello degli ovini, nei territori a cavallo del Po e sulle propaggini prealpine e alpine, si sperimentarono invenzioni casearie di ogni tipo, tanto che, già nella seconda metà del XV secolo, il medico umanista Pantaleone da Confienza, nella sua Summa lacticinorum (Trattato dei formaggi) enumerava i formaggi piacentini e i parmigiani tra i pochi degni di nota nel panorama italiano. Almeno dal XIII secolo, infatti, particolarmente nelle zone della pianura, si erano andate creando vere e proprie piccole industrie a livello familiare, concorrenti sul mercato europeo con i formaggi provenienti dai conventi francesi. Da una parte un terreno fertile e ricco di acque, dall’altra la capacità di migliorare continuamente le tecniche di coltura dei foraggi, la selezione e l’allevamento delle razze bovine nonché il livello tecnico della produzione lattiero-casearia hanno successivamente portato i latticini lombardi ad un "livello certamente superiore alla media delle nazioni europee", come si sottolinea nell’Atlante dei Prodotti Tipici edito qualche anno addietro dalla Regione Lombardia.  Anche sui rilievi, sulle Prealpi, come in Valle Intelvi e in Valsassina, dove l’evoluzione delle tecniche non ha potuto essere così rapida e generalizzata come in pianura, secolari tradizioni di trasformazione del latte hanno saputo conservarsi e aggiornarsi, contribuendo in maniera sostanziale, con la varietà delle tipologie casearie, alla caratterizzazione in senso qualitativo della produzione lattiero-casearia regionale. Nel panorama lombardo, la provincia di Como (comprensiva anche del Lecchese, in riferimento a dati di rilevamento precedenti il distacco di quella provincia) è tra le meno attive nel settore, risultando al terzultimo posto sia per la produzione di latte vaccino (circa 700.000 quintali, su un totale di circa 35.000.000 di quintali) sia per quella di burro e di formaggio (rispettivamente 5.000 quintali sui 350.000 regionali e 33.000 quintali su 2.700.000). Al di là dei dati produttivi, ha invece importanza e più ne ha avuta in passato, la presenza del latte e dei latticini nella cucina praticata sul territorio. Polenta e latte, castagne e latte, riso e latte erano piatti unici della cucina povera consumati un po’ ovunque. Nel latte si cuocevano l’urgiada e il manzo alla California, l’arrosto di maiale al latte e persino il pollo e gli spinaci. Al latte, specialmente nella cucina borghese, spesso si sostituiva, per le stesse preparazioni,. la panna, che veniva utilizzata anche per addensare salse, sughi e fondi di cottura di vario tipo e per il condimento dei tortelli e delle paste farcite, oltre che come specialità dolciaria autonoma nelle castagne con la panna, nel tipico lattemiele accompagnato ai cialdoni, uno dei più diffusi dessert sulle tavole borghesi dell’inizio del nostro secolo, o nella panna cotta, aromatizzata con rosolio o maraschino. Il mascarpone costituisce la base di molte farcie per paste o carni e di una varietà infinita di creme da dessert. Di queste ultime già Pantaleone da Confienza forniva nel 1477 la ricetta base: "... al mascarpone si mischiano dell’acqua di rose e un bel po’ di zucchero". Al posto dell’acqua di rose si sono utilizzati negli ultimi due secoli, l’amaretto, il maraschino, il brandy, il rum e, nei nostri anni, persino l’onnipresente limoncello. Il gusto del mascarpone, così tondo e cremoso è in grado di armonizzare anche questo! Più complesso è il discorso sull’utilizzo gastronomico del formaggio. Se non sono più apprezzati, infatti, pietanze di formaggio cotto, quale poteva essere il quattrocentesco casio in patellecte descritto nel ricettario di Maestro Martino, è pur vero che nella nostra tradizione popolare e nel panorama della gastronomia cólta molte restano le formulazioni in cui il formaggio riveste una importanza primaria. Dalla polenta uncia al riso in cagnone, dai pizzoccheri agli sciatt valtellinesi, ma ormai entrati, attraverso la Valsassina, anche in territorio lariano, dagli gnocchi ai malfatti; e quasi tutte le minestre e quasi tutti i risotti: col formaggio sulla minestra si apre il pasto, e non ci si alza da tavola senza aver pulito la bocca con un boccone di formaggio, il dessert più apprezzato dalla cultura tradizionale.
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