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Computers Trilogia dell'amore
scritto inedito di: Milost Della Grazia
Genesi  o proustiana ricerca del tempo perduto
Era una tranquilla serata di maggio dell’anno 1912. Hermann Bahr se ne stava comodamente seduto nel parco di una villa a Opicina, con vista sul golfo di Trieste e stava centellinando un calice di  Piccolit, costoso vino friulano. Non aveva mai bevuto un vino bianco come questo, fresco sui  dodici gradi, con un gusto lievemente dolce che svanisce rapidamente, lasciandoti la bocca fresca, con il desiderio di assaporarne subito un altro sorso. Critico teatrale a Vienna, non era la prima volta che veniva a Trieste, ma sempre in treno e per lavoro. Era tornato per concordare la rappresentazione della sua ultima commedia, “il Concerto”. Questa volta però si era concesso una settimana di ferie per visitare questa città che i viennesi amavano molto, tanto da chiamarla la piccola Vienna. Fino a Monfalcone era arrivato in treno, poi un amico  l’aveva portato a Trieste con la sua Ford T. Dopo Sistiana procedevano molto lentamente, perché Bahr ogni tanto chiedeva all’amico di fermare l’auto in una piazzola sul mare. Si levava gli occhiali impolverati e guardava il panorama aspirando profondamente l’aria salmastra.: Ah, wunderbar, meraviglioso, continuava a dire. Secondo lui la timida e struggente bellezza di questo panorama illirico era infinitamente superiore a quella  lussureggiante del golfo di Napoli. Per lui Trieste non era una città, ma solo il sogno di una città e osservando da questa collina  il golfo che andava lentamente illuminandosi nel tramonto, diceva che qui si aveva l’impressione di essere  come sospesi nell’irrealtà. Questi erano discorsi fatti tanti anni fa, molta acqua è passata da allora sotto i ponti,  due guerre mondiali ed una guerra civile.
Chi, come me,  non è più giovane ed ha partecipato alla storia degli ultimi settanta anni, sa che questo senso di irrealtà  si è ulteriormente  accentuato.
Un certo professor Joseph Cary ha pubblicato a Londra nel 1993 il libro “A Ghost in Trieste”, cioè “Un fantasma a Trieste”. Probabilmente Cary era un inglese arrivato qui con le truppe di occupazione e voleva  rivedere con occhi differenti questa città della quale un tempo si era innamorato,. voleva rivederla con l’intento di scrivere qualcosa su Svevo, su Saba e su Joyce. Invece aveva finito per trovare il “genius loci” che emanava dalle case della città e le conferiva un carattere del tutto particolare. Forse anche lui amava sedersi in questo giardino di via Giulia, cercando di immaginarsi Joyce che passeggia tra queste aiole nelle fresche ore del mattino. Cary è sicuramente più giovane di me, non è nato a Trieste ma ha capito il “genius loci” che emana da ogni vecchia casa, dai palazzi del greco Demetrio Carciotti, dalla smagliante facciata di palazzo Gopcevich sul  Ponte Rosso, dal neoclassico palazzo della Borsa con il monumento a Leopoldo I, dal palazzo del Hotel de la Ville, che ospitò Thomas Mann e Grilparzer,  dal palazzo del Governo con i sfavillanti mosaici di Artmann, da San Giusto costruito sulle rovine di un antico castelliere, dall’antica Chiesa Greco-Orientale di via san Nicolò, da quella Serbo-Ortodossa di via San Spiridione, dalla Sinagoga di piazza San Francesco, dal settecentesco borgo Teresiano, nucleo storico della città moderna, dal Ghetto di via Cavana, dal palazzo del Municipio in piazza Unità.
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