Rimandato
in Italia, dopo l'esperienza albanese, come studente in medicina, mi trovavo
l’8 settembre all’ospedale di Romano di Lombardia a chiacchierare
con il mio amico Ambrogio Rivetta, che fungeva da direttore e primario
chirurgo. Nella mattinata si sparse come una folgore la notizia dell’armistizio
e del famoso “tutti a casa”. La popolazione, affamata da anni di
privazioni assaltò il Consorzio Agrario, decine di persone, uomini,
donne e ragazzi che portavano via sacchi di farina e tutto quello
che trovavano. Non si è mai saputo chi li abbia chiamati, ma arrivò
un autocarro di tedeschi, i quali, sparando in aria, ordinavano di
abbandonare i sahi e di andarsene. Visto che nessuno obbediva, aprirono
il fuoco sulla popolazione e in pochi minuti decine di uomini, donne e
bambini giacevano a terra. Per fortuna intervenne mio padrino, vecchio
Alpenjaeger, sfollato con mia madre a Romano, il quale con l’aiuto del
maresciallo dei carabinieri convinse i tedeschi ad andarsene. Il dottor
Rivetta, le suore dell’ospedale ed io trasportammo i feriti in qualche
modo in ospedale ed iniziammo ad operare per molte ore tutti quelli che
erano ancora vivi. Non avevamo alcuno scorta di sangue e mi ricordo di
avere visto morire sotto le mie mani un bambino di 15 anni che aveva un
ginocchio spappolato. Impiegammo molte ore per salvare qualche ferito,
mentre degli aerei inglesi cominciarono a bombardare l’unico ponte sul
fiume Serio, a 500 metri da noi, facendo tremare il soffitto della sala
operatoria e obbligandoci a coprire le ferite con un telino, tra una bomba
e l’altra, per evitare che i calcinacci finissero nella ferita.
Al mattino dopo andai dal maresciallo e gli chiesi cosa devo fare,
ero un sergente maggiore e avevo letto dei manifesti che ordinano ai militari
dispersi di presentarsi al più presto presso una caserma.
Il maresciallo mi disse, quelli non scherzano, vada subito al distretto
di Vercelli a chiedere disposizioni. Partii in giornata con una vecchia
automobile a carbonella e mi presentai al distretto di Vercelli. Dopo un’ora
ero arruolato in un battaglione di bersaglieri in partenza per Salerno,
dove erano sbarcati gli americani. Nella notte la tradotta si mosse, ma
all’alba mi accorsi che non stavo andando verso Salerno, ma che ormai ero
in Germania.
Così iniziò la mia avventura sulla Linea Gotica ed ebbi
l’onore di essere uno dei tanti soldati di Kesselring, il grande generale
che amava gli italiani.
Quando fui ferito Kesselring si avvicinò al mio letto, scambiai
quattro parole in tedesco con lui e mi strinse cordialmente la mano. Così
finiva la mia avventura e la tragedia di Mussolini, il 25 aprile 1945 in
piazzale Loreto |