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Computers Posso parlare ancora di Fascismo?
scritto inedito di: Milost Della Grazia
Come si viveva ai tempi del fascismo?
Nel 1927 a Trieste abitavo a due passi dalla Stazione e frequentavo la seconda elementare alla scuola  Elena di Savoia, in via Ruggero  Manna, a cento metri dalla mia abitazione. Ai primi di gennaio  consegnarono a tutti gli scolari un pacco contenente  una divisa: una camicia nera, un giubbetto,  pantaloni corti  e calzettoni grigio-verdi,  un fez nero con un’aquila gialla di latta. Mia madre era  lontana e zia Gemma perse tutta la giornata per adattarla alla mia misura e  il  6 gennaio mi  accompagnò a scuola in divisa, dove fecero una fotografia a tutta la classe, vestita da Balilla, foto che  conservo ancora. Normalmente ricevevo dei doni il 6 dicembre da San Nicola, in Acquedotto, ai volti  di Chiozza. Quell’anno ricevetti dei doni anche il 6 di gennaio, giorno della Befana-Epifania e chi mi diede i doni era anche lui in divisa e ci spiegò che la Befana veniva da Roma ed era fascista. Per finire in bellezza, la festa terminò con un piccolo ballo, di cui ricordo due cose, la dolcissima musica Ramona e la bambina che ballava con me. Mi portò da sua madre, moglie del capitano D’Alessandro, che comandava la caserma dei carabinieri di via Rossetti. 
 La madre volle conoscere zia Gemma, che le raccontò che abitava in villa Perotti con la nonna  e la moglie del capitano raccontò a sua volta che erano stati trasferiti da Bari a Trieste, dove non conoscevano nessuno,  invitandoci ad andare a trovarli  in caserma, dove potevo giocare con Gabriella. Quel giorno imparai molte cose: non esisteva solo san Nicola ma anche la Befana fascista, che voleva dire Roma, cioè regali e camicia nera. 
Avevo una nuova amica, una simpatica ragazzina della mia età, che veniva da Bari, città del mio  San Nicola.  Mio nonno, mio padre, quattro zii, erano tutti ufficiali austriaci, tutti sloveni e croati, non avevano nulla contro l’Italia, ma non si sentivano italiani e preferirono andare all’estero, in Usa, in  Messico e in Cina.  A differenza di altri bambini  nella mia famiglia non avevo mai sentito degli adulti parlare di politica, della patria, di Trieste. In genere nelle famiglie c’è sempre un nonno, un vecchio zio ex comunista o anarchico che ti racconta le sue esperienze, zia Gemma, l’intellettuale di famiglia, fu subito entusiasta di Mussolini, mia nonna non mi parlava mai di politica. Lei scolpiva nel legno teste di varia grandezza, anche di Benito Mussolini, che vendeva a Trieste. 
L’unica persona che mi disse due parole fu il papà di Gabriella, il capitano D’Alessandro. Un giorno arrivai in caserma in divisa, con la camicia nera. Anche lui mi chiamava Bubi, nome che ho usato fino al 1962, quando mio padre a  San Diego mi ribattezzò Eddy.  Il capitano mi venne vicino e in un momento che eravamo soli, mi disse: “Bubi, un uomo deve essere anzitutto uomo, poi un galantuomo, il colore della camicia non ha alcuna importanza”. Mi ricordai le ultime parole di mio padre: “un uomo, una parola”.  Mio padre era capitano anche lui e con il capitano D’Alessandro sarebbe andato d’accordo, forse gli avrebbe insegnato che anche in Italia c’è tanta brava gente.
Sia a Trieste che a Milano non ebbi mai la sensazione di non essere un uomo libero, sono andato decine di volte in Jugoslavia e nessuno mi ha mai chiesto qualcosa, quando ho chiesto il passaporto per gli Usa, l’ho avuto subito, a Milano ho sempre comprato e letto tutti i libri stranieri che volevo, compreso il Capitale di Carlo Marx.  Ho sempre odiato la cronaca nera e sono grato al fascismo di non avermi obbligato a leggerla. 
Crescevo con la qualifica che mi dava il regime, prima Balilla, poi avanguardista, dopo i sedici anni il premilitare, in base al principio “libro e moschetto, fascista perfetto”, ma il premilitare mi  infastidiva,  perchè non potevo andare al  the danzante del Puccini in Corso Buenos Aires. Un sabato pomeriggio, per dispetto, mentre marciavamo per le vie del centro, abbiamo intonato la Marsigliese. La gente ci guardava divertita, ma nessuno ci chiese spiegazioni. 
 Non ho mai dovuto iscrivermi al PNF,  l’unico scherzo che ci fecero fu quando, scoppiata la guerra, il capo dei GUF, giovani fascisti universitari,  entrò in aula comunicandoci trionfante che aveva  chiesto per tutti noi l’onore di partire volontari per il fronte. Qualcuno finì  a Bir el Gobi, coprendosi di gloria, come dissero gli inglesi,  altri morirono da eroi sul Conte Rosso  silurato al largo di Siracusa. Io partii per l’Albania, un mio amico pianse disperato, perchè non era idoneo a partire per il fronte per una vecchia pleurite.  Il fascismo mi insegnò ad amare l’Italia, quella patria che, come slavo, non avevo mai avuto, mi insegnò ad essere onesto e rispettoso della dignità altrui, sempre pronto ad aiutare gli anziani  e i  più deboli di noi.  L’esperienza albanese, secondo Ciano doveva essere una passeggiata di tre giorni fino ad Atene, diventò una tragedia, ma questa è un’altra storia e raccontarla sarebbe andare fuori tema, cosa che ho già fatto ampiamente, quando, trasportato dall’entusiasmo, ho ricordato quelle memorabili giornate della mia gioventù.  
Per concludere il capitolo voglio ricordare le parole che Giuseppe Prezzolini scrisse in America  tra le due guerre nel suo Manifesto dei Conservatori:  il  fascismo fu una situazione storica che il popolo italiano, salvo eccezioni, tutto quanto, plebe e magnati, clero e laici, esercito e università, capitale e provincia, industriali e commercianti e agricoltori, fecero propria, nutrirono con il proprio consenso ed applauso, e che, se fosse continuata  oggi, essi continuerebbero ad applaudire e a sostenere..Se Mussolini fosse morto di vecchiaia nel suo letto, evitando in qualche modo il disastro finale, sono convinto che il popolo l’avrebbe amato devotamente  fino alla sua fine. In Italia  non esisteva una opposizione al fascismo, salvo i pochi avanzi  della classe politica  prefascista. Fra gli stessi comunisti  gli unici che avessero una certa organizzazione erano i “miglioristi”, che non si proponevano di combattere il fascismo, ma di conquistarlo dal di dentro  Quella liberal-democratica era una  “fronda”  più o meno tollerata dal fascismo, spesso protetta e aiutata da qualcuno dei suoi gerarchi, come  Balbo, Bottai e Grandi. 
Per la chiesa  era stato l’uomo della provvidenza e il Papa di turno, alla sua morte, avrebbe celebrato la messa funebre.
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