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Gli Affreschi del Castello  (6)
.Sala degli Argonauti

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Nella Sala degli Argonauti, dove si trova affrescato il mito degli Argonauti, è rappresentata la nave Argo.  Fu costruita da Argo con l'aiuto della dea Atena che ornò la prua con una figura intagliata con la quercia Dodona che era una quercia parlante: all'estremità della nave si osserva una testa di animale con la bocca aperta a significare la sua capacità di parlare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

L'affresco espone in sintesi i momenti più significativi del mito di Medea, la donna innamorata di Giasone, comandante degli Argonauti.  In alto Medea guida il carro tirato dai draghi volanti, alla ricerca di erbe magiche.  A sinistra Medea invoca la sua luna prima di compiere il prodigio del ringiovanimento del padre di Giasone.  A destra la donna sta squarciando il corpo del vecchio per infondergli i filtri preparati nel pentolone.  Il mito di Medea è narrato da Ovidio nel VII° libro delle Metamorfosi, dove si trova il testo della preghiera di Medea alla Luna ed è inoltre descritto da Apollonio Rodio nelle Argonautiche.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Le prove di Giasone

Da questo salone entriamo nella sala attraverso la porta che sta a sinistra e che immette appunto nella sala detta degli Argonauti. Era lo studio privato del marchese e il luogo degli incontri riservati, dove il marchese riceveva ~i amici più intimi. Ha una dimensione di metri 8,10 per 7,10.  Qui si descrive il mito degli Argonauti.  Viveva in Orcomeno, città della Beozia, un figlio di Eolo, Atamante, il quale aveva avuto dalla dea delle nubi, Nefele, due figli: Frisso ed Elle.  Ma Ino, moglie di Atamante, odiava i due bambini a morte, la dea Nefele, allora, mandò dal cielo un ariete dalla lana d’oro perchè li salvasse e li trasportasse a volo lontano.  Durante il viaggio, Elle fu colta dalle vertigini e precipitò in quel mare che dal suo nome fu detto Ellesponto; Frisso invece arrivò sano e salvo nella Colchide, tra le montagne del Caucaso.  Qui egli sacrificò l’ariete a Giove; gli tolse la preziosa pelliccia e la donò al re Eeta, che dominava in quella regione: costui era un mago, fratello della maga Circe che dimorava nella caverna del monte Circeo in Italia.  Accettò il dono, lo appese ai rami d’un albero in un bosco sacro e vi mise a guardia un drago.  Viveva in quello stesso tempo, nella città di lolco in Tessaglia un altro re chiamato Pelia. Era un perfido tiranno che aveva usurpato il trono al suo fratello Esone. La moglie di Esone, temendo che il tiranno attentasse anche alla vita d’un suo figlioletto, Giasone, gli aveva dato ad intendere che questi era morto; l’aveva invece trafugato sul monte Pelio, affidandolo alle cure del famoso centauro Chirone, pieno di sapienza e di saggezza. Giasone, all’età di vent’anni, ritorna a Iolco e chiede conto allo zio del suo operato. Lo zio, il re Pelia, gli risponde che il trono appartiene a chi lo sa conquistare: chi vuole riprendere il trono deve compiere qualche impresa straordinaria.  Per esempio deve andare nella Colchide a prendere un vello d’oro che era dell’ariete di Frisso severamente custodito da un drago nel bosco sacro.  A questo punto la narrazione è lasciata agli affreschi del castello.  Gli Argonauti si chiamarono così dalla nave Argo. Furono re e principi che si unirono a Giasone per andare nella Colchide, sull’attuale Mar Nero ai piedi del Caucaso, per la conquista del vello d’oro.  A Giasone si affiancarono altri famosi eroi, tra i quali Anceo, Anfiarao, Castore e Polluce, Echione, Meleagro, Telamone, Zete, Calai, Ercole, Orfeo, Mopso.  Cronologicamente l’impresa avvenne circa una generazione prima della caduta di Troia, se riteniamo la data tradizionale dell’anno 1184 a.C., oppure nel 1270 a.C. secondo i più recenti studi.  Comunque il mito riecheggia la storia dell’avanzata, lenta e continua, dei Greci in età più recente, lungo le coste del Mar Nero, nella prima fase della loro colonizzazione economica, verso oriente e verso il nord.  Gli affreschi sono certamente dopo il 1565, anno in cui è stampato un libro che riproduceva alcune scenette a xilografia che sono tali e quali come i disegni dei nostri affreschi, e se gli affreschi sono da attribuirsi a Bernardino Campi, si sa che questo pittore morì nel 1591.  Bernardino Campi, tra le altre città, lavorò anche a Milano chiamato da Ferrante Gonzaga, generale dell’esercito spagnolo, governatore di Milano e più tardi conte di Guastalla.  Il suo figlio, Ottavio Gonzaga, sposò Cecilia Medici di Melegnano, figlia del marchese Agosto: per questi legami e per tali conoscenze fu probabile che il pittore Bernardino Campi avesse anche il lavoro di affrescatura al castello di Melegnano.  Tanto più che proprio in questa sala degli Argonauti si riscontrano medaglioni decorativi in rosso scuro con linee e con soggetti propri rintracciabili nel Palazzo de Te a Mantova dove ha lavorato Giulio Romano di cui il Campi era amico e di cui sentì l’influsso.  Entrati nella sala osserviamo il primo affresco, quello che sta a destra della porta e che raffigura una grossa nave: è la nave Argo.  La nave ebbe il nome di “Argo” dallo stesso nome proprio di Argo, figlio di Frisso re della città di Orcomeno in Beozia; e la nave che portava il suo nome servì ai principi greci da mezzo di trasporto per raggiungere la Colchide dove si trovava il vello d’oro.  Secondo una leggenda questa nave sarebbe stata la prima imbarcazione che violò il mare aperto e, dopo il felice esito della spedizione, fu trasportata in cielo dagli dei e mutata in una costellazione.  Le vele della nave sono gonfie di vento, soffiato dalle divinità marine mandate per una veloce navigazione: nell’affresco si vedono due numi del mare preposti ai venti e che stanno soffiando con le loro trombe l’aria per la navigazione.  Il poeta greco Apollonio Rodio, nella sua opera Le Argonautiche (III, 340-349, traduzione di Guido Paduano), così descrive la nave, nelle parole di Argo davanti al re della Colchide: “La nave l’ha fabbricata Pallade Atena e non assomiglia alle navi dei Colchi, tra cui avemmo in sorte la più sciagurata: la loro nave è ben inchiodata, se anche le piombassero addosso tutte le bufere: e corre ugualmente nel vento, e quando gli uomini, senza tregua, fanno forza sui remi. Su questa nave ha radunato gli eroi più prodi di tutta la Grecia e viene alla tua città dopo aver errato per tante città e mari terribili, a chiederti il vello”.  Nella parete del camino l’affresco di sinistra mostra l’incontro degli Argonauti con il re Finéo. Finéo, nel mito, fu re di Salmidesso nella Tracia. Ripudiò la prima moglie per sposare una seconda donna, di nome Idea. Questa donna odiava i due figli della prima moglie, fino a dire che essi avevano tentato di sedurla. Il marito Finéo le credette e accecò i due figli per punizione.  Ma gli dei, non tollerando la malvagità di Finéo, condannarono anche lui a diventare cieco, a soffrire un’eterna vecchiaia e inoltre, comandarono alle Arpie, tre mostri alati, di insozzare coi loro escrementi i cibi che gli venivano preparati.  L’infelice trascorse in tal modo diversi anni, fin quando gli Argonauti approdarono a Salmidesso, incerti sulla rotta da tenere: Finéo approfittò dell’occasione e si offri di indicare loro la via se l’avessero liberato dalle Arpie.  Nell’affresco è ben visibile l’eroe capo della spedizione Giasone con l’abito color giallo, così come si ripeterà negli altri affreschi della sala.  Ecco il caminetto. E’ opera in marmo da Verona di buona fattura composto da due piedritti a forma di zampa di leone di pronunciata modanatura che sorreggono la trabeazione.  Nella parte superiore alla trabeazione due riquadri in stucco colorato con due scenette a fresco color seppia. Il camino è completato da una modanatura in cotto e dalla cappa in stucco con affresco simbolico un po’ deteriorato.  Nell’affresco di destra del camino vi è la sintesi del mito di Medea, che si innamorerà di Giasone. Medea fu una donna strana, dal carattere duro e vendicativo, terribile nelle sue passioni e nelle sue vendette, che non indietreggiava di fronte a nessun ostacolo pur di raggiungere lo scopo prefisso; capace di macchinare e perpetrare i delitti più orrendi, pur di vendicarsi o di ottenere quanto desiderava; è una delle figure della mitologia greca su cui più d’ogni altra si sbizzarrirono gli scrittori, alcuni dei quali ne tentarono anche una riabilitazione.  In questo affresco vi sono dunque parecchi fatti della vita di Medea.  In alto cammina su un carro vicino alla Luna; Medea in ginocchio fa una preghiera, mentre si prepara a ringiovanire il padre di Giasone che sta steso su un cavalletto davanti a lei.  Riesce a far atterrare il carro notturno e vi monta su palpando le teste dei draghi e scuotendo le briglie leggere, levandosi verso regioni dove vi sono erbe incantate contenenti succhi per filtri magici.  Poi ritorna e nel vaso di bronzo bollente caccia rami secchi ed erbe.  Quindi brandisce la spada, squarcia la gola del vecchio e lascia uscire il sangue senile mentre riempie le vene con il liquido della pentola che bolle: sparisce la macilenza del vecchio e lo squallore, la pelle non è più avvizzita, le rughe si riempiono di carne e tutte le membra lussureggiano.  I due affreschi sulla parete sopra le finestre rappresentano, a sinistra, l’arrivo di Giasone e compagni presso il re della Colchide, Eéta, padre di Medea.  Ad Eéta venne dato in custodia il vello d’oro. L’oracolo aveva predetto a Eéta che avrebbe regnato finchè avesse conservato il vello d’oro. Perciò egli, quando Giasone si recò da lui a farne richiesta, temendo di perdere il trono dichiarò al giovane di essere disposto a cedergli quanto chiedeva a patto che, in un sol giorno, fosse riuscito a soggiogare due tori dagli zoccoli di bronzo, spiranti fiamme dalle froge di ferro e a dissodare con l’aiuto di essi quattro iugeri di terra, per seminare poi nei solchi i denti di un drago da cui sarebbero subito nati dei guerrieri che egli doveva, come ultimo compito, uccidere.  L’affresco di destra rappresenta Medea, figlia del re Eéta, che si reca al tempio di Ecate, una dea notturna, madre di Medea. Al tempio ella chiede come deve comportarsi con Giasone, di cui si era innamorata.  Ecco ora i due affreschi della parete di fronte al camino: a sinistra sono dipinte le prove di Giasone. La scena è piena e complessa. A sinistra sta seduto il re Eéta circondato dal suo seguito, tra cui Medea e le sue ancelle.  Giasone promise a Medea di sposarla e la donna, che era una maga, gli fornì erbe magiche con le quali avrebbe potuto compiere felicemente il compito imposto.  Giasone affrontò i due terribili tori spiranti fuoco - nell’affresco sono dipinti a destra sullo sfondo - riuscì ad aggiogarli e a costringerli a tirare l’aratro.  Poi, tracciati i solchi, prese dall’elmo - che nell’affresco giace in mezzo in primo piano - i denti del drago e li seminò. Quasi immediatamente da quella semente insolita nacquero i guerrieri - nell’affresco sono tutti sulla parte destra - che, armati balzarono fuori dalla terra con intenzioni bellicose, ma Medea, con le sue formule magiche, provocò una lotta reciproca e terribile dei guerrieri fino ad uccidersi l’un l’altro. Ormai la via per la conquista del vello d’oro era aperta.  Il poeta romano Ovidio (43 a.C. - 18 d.C.) descrive magistralmente la scena: “L’aurora dell’indomani aveva fugato le lucenti stelle: il popolo si radunò nel sacro campo di Marte e si dispose sulle alture: in mezzo alla folla si pose il re, vestito di porpora e riconoscibile per lo scettro d’avorio. Ed ecco che i tori dagli zoccoli di bronzo spirano fiamme di Vulcano delle ferree froge e raggiunte dall’ardore si disseccano le erbe: il figlio di Esone tuttavia muove all’incontro. Feroci rivolsero verso colui che si appressava gli occhi terribili e le corna puntute di ferro; con le zampe bisulche batterono il suolo sollevando polvere; di fumo e di muggiti insieme riempirono il luogo.  I discendenti di Minia gelarono di paura. Ma egli si avvicina, non avverte quel respirare infuocato - tale è il potere delle erbe - audacemente con la destra accarezza le pendenti giogaie; e dopo aver imposto il giogo, li costringe a trainare il peso greve dell’aratro e a fendere il terreno che non aveva conosciuto il vomere; stupirono quelli della Colchide; con le loro grida i discendenti di Minia accrescono e raddoppiano l’ardire. Allora egli toglie da un bronzeo elmo denti di drago e li sparge sul terreno arato. Le glebe intridono i semi già spalmati di efficace veleno; i denti seminati germinano e divengono corpi novelli ... figure di uomini nascono dal campo e già squassano le armi nate insieme a loro.  Quando Giasone, solo, si vide assalito da tanti nemici, impallidì e all’improvviso Medea esangue e fredda si accasciò; e paventando che poco valessero le erbe, prese a cantare un magico canto di soccorso e ricorse alle sue arti segrete.  Nel folto dei nemici Giasone scagliò una massiccia pietra, allontanò da sé il furore di Marte e lo rivolse contro di loro stessi: per ferite reciproche perirono i guerrieri nati dalla terra e per fraterna contesa caddero sul campo.  Esultarono gli Achei e, raggiunto il vincitore, lo strinsero a sè con intensi abbracci “.  Siamo all’affresco di destra della stessa parete. La scena è dominata da Giasone che compie l’ultimo suo atto. La maga Medea con i suoi incantesimi era riuscita ad addormentare il drago che custodiva il vello d’oro collocato su un ramo di un albero della foresta sacra ad Ares.  Nella mitologia greco-romana l’ariete che portava il vello d’oro fu tramutato in costellazione detta appunto anche oggi “costellazione dell’ariete” - e a proposito il poeta romano Ovidio scrisse: “Divenne astro il montone, toccando la spiaggia; il vello d’oro si trasportò nella reggia dei Colchi”.  Ricordiamo ancora che Gian Giacomo, negli ultimi suoi momenti di vita, ricevette al suo letto la visita del duca d’Alba, governatore di Milano e generale di Carlo V°, che annunciava al morente l’onore di essere insignito del Toson d’oro.  Il vocabolo “tosone” è come dire la pelle, il vello di montone odi capra.  L’ultimo affresco, quello di sinistra sopra la porta, rappresenta il re Eéta circondato dai suoi guerrieri mentre sta inseguendo la figlia Medea scappata con Giasone: il re della Colchide, Eéta, qui rappresentato al centro dell’affresco sul suo cavallo, con la corona in testa, aveva compreso che tutto si era compiuto perchè Medea aveva aiutato Giasone. Di qui l’odio contro la figlia.  Intanto gli Argonauti, quasi nascostamente - come sono dipinti nell’affresco - si affrettano a raggiungere la nave Argo per ripartire con il viaggio di ritorno: essi, con passo veloce, così come si vedono sullo sfondo del dipinto, sono vogliosi di mettersi bene in salvo camminando a piedi.  Medea inseguita dal padre che voleva punirla per la sua azione fuggì trascinandosi dietro il fratellino Assirto, e quando si accorse che stava per essere raggiunta, uccise l’innocente fanciullo e lo tagliò a pezzi, seminando le membra straziate dietro di sè: e così il padre, per raccogliere i miseri resti del figlioletto, era costretto a ritardare l’inseguimento, permettendo a Medea di mettersi in salvo sulla nave di Giasone.  Nell’ affresco il re Eéta, padre di Medea, sta al centro: tiene nella mano destra un pezzo di mano del figlio ucciso mentre un servo gli mostra anche il capo mozzo.  Questo mito tragico e sanguinario sulla morte di Assirto è raccontato da sommi scrittori antichi: Ovidio, Apollonio, Rodio e Igino, con alcune varianti che però non cambiano la sostanza del racconto.
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