Il rondò di Loreto
Andiamo quindi oltre, e sostiamo alla celebre Osteria di Loreto, anzi del
Rondò di Loreto. Era questa una delle mete più care
dei milanesi, i quali, nelle domeniche
serene, chiedevano, pei loro occhi, un po' di quel verde tenero, che è
un riposo per l'anima e per il corpo. Qui giungeva nei così
detti bombés, tirati da focosi cavalli, il mondo elegante d'allora,
a piedi, o nei modesti fiacres venivano le famiglie della borghesia milanese.
Ricordi lontani ma cari. Qui, con mio padre e con mia madre, gustai le
soste che non conobbero il nervosismo moderno. Questa osteria occupava
il piano terreno di quella casa che forma un triangolo, dove oggi sorge
un cinematografo, tra l'inizio della così detta strada postale
Veneta, che conduce a Gorgonzola (oggi viale Padova) e il. superbo vialone
di Monza, che porta alla Villa reale, di gloriosa e triste memoria. In
questa osteria conobbi una delle macchiette più tipiche della Milano
d'allora: il Barbapedana. Questo tipo curioso
di rapsodo meneghino girava per tutte le osterie urbane e suburbane, ma
aveva una predilezione pel vecchio Rondò di Loreto, ove trovava
un pubblico misto di ricchi, di borghesi e di popolo minuto, diviso, per
gruppi, (intorno alle tavole, coperte dal rustico tappeto di lana verde,
in mezzo alle quali troneggiava il pestone di vin bianco), ma unito in
una solidarietà casalinga forse appena apparente. Barbapedana
aveva due repertori; uno castigato, corretto, ad uso degli avventori per
bene, coronati d'ingenua prole; l'altro per certe coppie birichine, che
si nascondevano in fondo alla toppia o nell'ombra discreta di una sala
appartata. Barbapedana entrava, guardava...
di colpo aveva conosciuto l'ambiente. Un saluto ampio con il cappello a
cilindro spelato, adorno di una coda di scoiattolo; un sorriso cordiale
sul faccione di luna piena, due accordi rapidi alla chitarra vecchia, che
portava appesa al collo, e il concerto incominciava. Le canzonette preferite
(del repertorio domestico) erano tre: La prima era di sua invenzione, musica
e parole:
Barbapedanna el gh'aveva
on gilé,
senza el denanz, cont via
el dedree;
cont i oggioeu longh ona
spanna
l'era el gilè del
Barbapedanna...
Era la verità, perché dalle falde della lunga zimarra, che
portava quel giocondo rapsodo, il gilé, oggetto della sua canzone,
appariva proprio così.
Ancor più famosa, la cantilena del Piscinin, che faceva andare
in visibilio tutti i bambini, e non solo i bambini, ed era sempre bissata:
De piscinin che l'era
el ballava volontera
el ballava su on quattrin
de tant che l'era piscinin;
e poi veniva la storia dell'origine de suoi utensili e delle sue
suppellettili:
D'ona guggia de calzett
l'ha faà foeura cent stacchett;
n'ha vanzaa on tantirolin
n'ha faà foeura on martellin...
e poi:
d'on oreggia de camoss
l'ha fàa foeura cent paposs;
n'ha vanzàa on tantirolin
n'ha faà foeura on papossin
per mett dent el sò pescin...
e poi ancora:
.. . de on guss de nòs
l'ha faà foeura on lett de spos;
n'ha vanzàa on tantirolin
n'ha faà foeura on sciffonin,
per mett dent...
e tralascio il resto, perché si può immaginare. Continuava
ancora con qualche rima su questo tono, ma non voglio scivolare anch'io,
involontariamente, nel secondo repertorio. Barbapedana però aveva
un intuito magnifico. Quando stava per scivolare e leggeva, sul volto di
un padre severo, un moto istintivo, un dilatar di nari, una contrazione
delle labbra, che denotavano il pericolo... pei propri pargoletti, virava
di bordo e tornava nella legalità. Passava al genere aulico, e cantava
la nota canzone di quel geniale poeta meneghino che fu Averardo Buschi,
immaturamente scomparso:
Me regordi che on dì, in
la mia scioeura
Hoo veduu sgorattà ona tegnoeura….
Tutt stremii me sont missa a vosà
«Te la chi!... te la lì...
te la là...».
La maestra, stremida anca lée
la desmett de spiegà 1'abbecée.,.
e anca lée la da foeura a strillà
«Te la chi!... te la lì...
te la là...)).
Con la scova el va a caccia el bidell
nun scolar tremm in ari el cappell
dandegh dent a sguagni sbragalà
« Te la chi!... te la lì...
te la là... »
La tegnoeura giamò mezza morta
la ga coeur de scappa de la porta
e nun piangem podend pù vosà
«Te la chi!... te la lì...
te la là...)).
A quel ritornello: Te la chi te la lì te
la là i ragazzi non stavano più nella pelle. Sembrava
che da quel pizzicato della chitarra e da quella vociona, che segnava col
ritmo lo svolazzare del povero pipistrello, capitato nell'aula scolastica,
emanasse una corrente elettrica... Finita la canzone, il Barbapedana
col piattello in mano, faceva il giro della sala e raccoglieva quei pochi
soldi, che gli bastavan per vivere... Per vivere male; perché,
quando la vecchiaia gli tolse il modo di guadagnarsi anche quei pochi soldi,
chiese rifugio alla Baggina (il Pio Albergo Trivulzio - ricovero dei vecchi
poveri.), ove chiuse per sempre gli occhi... Negli ultimi anni lo
si vedeva aggirarsi in abito di ”Veggion”, ma sul cilindro, la coda di
scoiattolo, cimelio dei tempi andati, oscillava ancora (unico privilegio
concessogli sulla uniforme divisa) quasi a ricordare ai passanti «Io
sono il Barbapedana!». |