El Barbapedana

El barbapedana gh'aveva un gilèt
curt davanti cont sensa el de drè
sensa butun, lung una spana
l'era 'l gilet del Barbapedana.


Il vocabolo Barbapedana, in dialetto meneghino, è sinonimo di cantastorie.
La figura del Barbapedana, è quella di un povero cantastorie della fine dell'ottocento, bizzarro, non indifferente ai piaceri di una buona bottiglia di vino, senza arte ne parte, girava da un'osteria all'altra. Vestito poveramente prendeva la vita con filosofia, in modo allegro e spensierato.
 

in un brano tratto dal libro "Vecchie Osterie milanesi" edito nel 1933, scritto da Luigi Medici, troviamo:

Il rondò di Loreto
Andiamo quindi oltre, e sostiamo alla celebre Osteria di Loreto, anzi del Rondò di  Loreto. Era questa una delle mete più care dei milanesi, i quali, nelle domeniche serene, chiedevano, pei loro occhi, un po' di quel verde tenero, che è un riposo per l'anima e per il corpo.  Qui giungeva nei così detti bombés, tirati da focosi cavalli, il mondo elegante d'allora, a piedi, o nei modesti fiacres venivano le famiglie della borghesia milanese.  Ricordi lontani ma cari. Qui, con mio padre e con mia madre, gustai le soste che non conobbero il nervosismo moderno. Questa osteria occupava il piano terreno di quella casa che forma un triangolo, dove oggi sorge un cinematografo,  tra l'inizio della così detta strada postale Veneta, che conduce a Gorgonzola (oggi viale Padova) e il. superbo vialone di Monza, che porta alla Villa reale, di gloriosa e triste memoria. In questa osteria conobbi una delle macchiette più tipiche della Milano d'allora: il Barbapedana. Questo tipo curioso di rapsodo meneghino girava per tutte le osterie urbane e suburbane, ma aveva una predilezione pel vecchio Rondò di Loreto, ove trovava un pubblico misto di ricchi, di borghesi e di popolo minuto, diviso, per gruppi, (intorno alle tavole, coperte dal rustico tappeto di lana verde, in mezzo alle quali troneggiava il pestone di vin bianco), ma unito in una solidarietà casalinga forse appena apparente. Barbapedana aveva due repertori; uno castigato, corretto, ad uso degli avventori per bene, coronati d'ingenua prole; l'altro per certe coppie birichine, che si nascondevano in fondo alla toppia o nell'ombra discreta di una sala appartata. Barbapedana entrava, guardava... di colpo aveva conosciuto l'ambiente. Un saluto ampio con il cappello a cilindro spelato, adorno di una coda di scoiattolo; un sorriso cordiale sul faccione di luna piena, due accordi rapidi alla chitarra vecchia, che portava appesa al collo, e il concerto incominciava. Le canzonette preferite (del repertorio domestico) erano tre: La prima era di sua invenzione, musica e parole:
    Barbapedanna el gh'aveva on gilé,
    senza el denanz, cont via el dedree;
    cont i oggioeu longh ona spanna 
    l'era el gilè del Barbapedanna...
Era la verità, perché dalle falde della lunga zimarra, che portava quel giocondo rapsodo, il gilé, oggetto della sua canzone, appariva proprio così.
Ancor più famosa, la cantilena del Piscinin, che faceva andare in visibilio tutti i bambini, e non solo i bambini, ed era sempre bissata:
De piscinin che l'era 
el ballava volontera 
el ballava su on quattrin 
de tant che l'era piscinin;
e poi veniva la storia dell'origine de  suoi utensili e delle sue suppellettili:
D'ona guggia de calzett
l'ha faà foeura cent stacchett; 
n'ha vanzaa on tantirolin
n'ha faà foeura on martellin...
e poi:
d'on oreggia de camoss 
l'ha fàa foeura cent paposs; 
n'ha vanzàa on tantirolin 
n'ha faà foeura on papossin
per mett dent el sò pescin...
e poi ancora:
.. . de on guss de nòs
l'ha faà foeura on lett de spos;
n'ha vanzàa on tantirolin
n'ha faà foeura on sciffonin,
per mett dent...
e tralascio il resto, perché si può immaginare. Continuava ancora con qualche rima su questo tono, ma non voglio scivolare anch'io, involontariamente, nel secondo repertorio. Barbapedana però aveva un intuito magnifico. Quando stava per scivolare e leggeva, sul volto di un padre severo, un moto istintivo, un dilatar di nari, una contrazione delle labbra, che denotavano il pericolo... pei propri pargoletti, virava di bordo e tornava nella legalità. Passava al genere aulico, e cantava la nota canzone di quel geniale poeta meneghino che fu Averardo Buschi, immaturamente scomparso:
Me regordi  che on dì, in la mia scioeura 
Hoo veduu sgorattà ona tegnoeura….
Tutt stremii me sont missa a vosà
 «Te la chi!... te la lì... te la là...».
La maestra, stremida anca lée
la desmett de spiegà 1'abbecée.,.
e anca lée la da foeura a strillà
 «Te la chi!... te la lì... te la là...)).


Con la scova el va a caccia el bidell
nun scolar tremm in ari el cappell
dandegh dent a sguagni sbragalà
 « Te la chi!... te la lì... te la là... »
La tegnoeura giamò mezza morta
la ga coeur de scappa de la porta 
e nun piangem podend pù vosà
 «Te la chi!... te la lì... te la là...)).
A quel ritornello: Te la chi te la lì te la là i ragazzi non stavano più nella pelle. Sembrava che da quel pizzicato della chitarra e da quella vociona, che segnava col ritmo lo svolazzare del povero pipistrello, capitato nell'aula scolastica, emanasse una corrente elettrica...  Finita la canzone, il Barbapedana col piattello in mano, faceva il giro della sala e raccoglieva quei pochi soldi, che gli bastavan per vivere...  Per vivere male; perché, quando la vecchiaia gli tolse il modo di guadagnarsi anche quei pochi soldi, chiese rifugio alla Baggina (il Pio Albergo Trivulzio - ricovero dei vecchi poveri.), ove chiuse per sempre gli occhi...  Negli ultimi anni lo si vedeva aggirarsi in abito di ”Veggion”, ma sul cilindro, la coda di scoiattolo, cimelio dei tempi andati, oscillava ancora (unico privilegio concessogli sulla uniforme divisa) quasi a ricordare ai passanti «Io sono il Barbapedana!». 
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