Scelsi
il Distretto Militare di Vercelli, dove ero già stato al rientro
dall’Albania. Benchè studente in medicina a Vercelli mi arruolarono
subito nel 27° Battaglione Fiamme Cremesi, il quale, secondo loro,
era in partenza per il sud, dove il 9 settembre, nei pressi di Salerno,
era sbarcato un contingente della 5° armata americana. Già fante
del 78° reggimento Lupi di Toscana, poi passato in Sanità
come studente in medicina, ora bersagliere, mi andava bene concludere la
mia carriera militare a Salerno, combattendo contro gli americani. Un reduce
dal Don mi donò il suo piumetto: “A me ha portato fortuna e sono
tornato, ora portalo tu”. Salimmo sulla tradotta, circa una ventina per
ogni carro merci, con divisa e scarpe nuove, acqua e viveri in abbondanza
e per terra molta paglia. La tradotta viaggiava speditamente ed il ritmico
tam tam delle ruote ci conciliava il sonno. Quando mi svegliai, eravamo
fermi con la porta bloccata dall’esterno. Una tenue luce filtrava attraverso
le griglie dei finestrini. Sentì suonare una sirena e poi il lontano
ronzio delle fortezze volanti che si stavano allontanando. Non capivo dove
eravamo, a Roma o a Napoli? Quando aprirono la portiera, entrò aria
fresca e scomparve il tanfo che ci impregnava. Ormai era giorno,
guardai il panorama, prati e boschi, montagne che nulla avevano a che vedere
con gli Appennini. La tradotta era circondata da militari tedeschi. Un
ufficiale italiano mi spiegò che eravamo in Germania, nei
pressi di Ulma. Alla fermata successiva di Münsingen ci fecero scendere,
dividendoci in vari gruppi. Comincia a nevicare e con il gruppo del
27 ° Bersaglieri mi misi in cammino verso la nostra destinazione
definitiva, il “lager” di Feldstetten, paesino di montagna del Wurttemberg,
a 1500 metri d’altezza. Da Münsingen a Feldstetten sono 17 chilometri,
tutti in salita, con le scarpe che affondano nella neve sempre più
alta. Siamo affamati ed infreddoliti, con le orecchie e le mani gelate.
Vado avanti e indietro e cerco di aiutare alcuni soldati che non resistono
alla fatica e vogliono buttarsi a terra nella neve, rinunciando a lottare.
Morire a Salerno, combattendo, era una scelta ben precisa, morire congelati
al bordo di una strada, era molto stupido A forza di incoraggiamenti,
di insulti e minacce, verso mezzanotte raggiungiamo il lager di Feldstetten,
chiamata la piccola Siberia. L’accoglienza è buona, con cibo e bevande
calde a volontà. Ci assegnano poi alcune baracche, tutte in legno,
una baracca ogni 24 persone. Tutte sollevate tre gradini dal terreno, con
brande a castello a tre posti, tre tavoli rettangolari, sgabelli ed una
grande stufa a legna in mezzo allo stanzone, per riscaldarci ed asciugare
i nostri abiti fradici. I servizi sono naturalmente tutti all’esterno.
Ha
inizio l’anno più duro della mia vita, ma, devo ammetterlo, anche
il più sano, perché alla fine ero tutto muscoli, con scarsissimo
pannicolo adiposo e digerivo anche i sassi. Avevamo una fame cronica,
ma evidentemente i tedeschi avevano studiato una dieta perfetta per un
giovane adulto che lavorava dieci ore al giorno in un clima invernale.
Era costituita da 800 grammi di una zuppa, da noi chiamata “pappina”, piuttosto
densa, penso a base di avena o segala, da dividere in due pasti, più
una pagnotta di circa un chilogrammo al giorno per sei persone. Una
volta alla settimana ci davano 50 grammi di un grasso bianco giallastro
da spalmare sul pane. La birra era libera, ma assolutamente analcolica.
Dopo una settimana fummo convocati a piccoli gruppi da una specie di commissione
di ufficiali tedeschi ed italiani ed il succo del loro ragionamento era
molto semplice. La “partenza per Salerno” era stata espediente per
portarci in Germania. Avevamo chiesto di andare a combattere, senza alcun
addestramento, contro l’esercito più preparato e meglio armato del
mondo. Era una scelta insensata, voleva dire buttare via la nostra vita,
senza portare alcun giovamento alla nostra causa. In Germania si
stavano costituendo 4 divisioni dell’esercito regolare di un nuovo stato.
Potevamo scegliere tra il campo di lavoro in Germania e l’adesione alla
divisione alpina Monterosa, che dopo un periodo di addestramento, sarebbe
tornata in Italia ed inviata al fronte contro gli alleati. Scelsi
di aderire a questa divisione, formata con le reclute del 1924 e del 1925
e con noi sottufficiali ed ufficiali: tre reggimenti, due di alpini ed
uno d’artiglieria alpina. Secondo la tradizione tedesca ogni divisione
alpina aveva un Gruppo Esplorante, molto mobile e dipendente direttamente
dal Comando della Divisione, in genere formato dalla cavalleria, nel nostro
caso dal 27° Battaglione Bersaglieri, con il quale ero partito da Vercelli
Il Gruppo Esplorante, era formato da tre Squadroni, due leggeri ed uno
pesante che aveva due plotoni, uno anticarro ed uno pionieri, al quale
fui assegnato. L’inizio dell’addestramento fu molto duro, molto simile
a quello visto in “Full Metal Jacket” di Kubrick e durò due mesi.
Ginnastica, marce forzate, uso delle armi ed il famigerato “ a terra “
ed “ in piedi”, esercizio utilissimo, in quanto insegna a buttarsi
a terra il più velocemente possibile, naturalmente con il fucile
in mano, senza lasciarlo cadere e soprattutto senza farsi male. La manovra,
fondamentale per sopravvivere, non veniva eseguita solo sulla morbida erbetta,
ma anche sui sassi e nel fango. Ripetere l’esercizio 5-10 volte di seguito
era la punizione abituale, quando l’istruttore ci giudicava troppo lenti
o svogliati. A questo addestramento dovevano partecipare ugualmente i soldati,
i sottufficiali e gli ufficiali. Dopo due mesi infernali iniziò
l’addestramento specifico, diverso per ogni plotone.
I miei compiti di pioniere erano: minare e sminare un ponte, calcolando
esattamente la carica necessaria e le giuste sedi dove metterla, sistemare
un campo minato e ripiegarlo, documentandolo sulla carta topografica, costruzione
rapida di piccoli ponti, per il passaggio anche di autocarri. Ultimo nostro
compito era l’assalto ad un bunker con la precisione cronometrica di una
rapina in banca. Mentre due mitragliatrici sparavano contro le feritoie
del bunker, un pioniere infilava una carica allungata sotto l’eventuale
reticolato. Due pionieri passavano attraverso l’apertura nel reticolato,
posando nelle feritoie del bunker due cariche esplosive, allontanandosi
velocemente. Mentre le mitragliatrici continuavano a sparare tutta
la squadra passava il reticolato, occupando il bunker. Tutto questo ripetuto
centinaia di volte, usando sempre cariche vere d’esplosivo, con il quale
avevamo ormai una grossa dimestichezza, tanto da fare esplodere una grossa
carica a non più di 2 metri da noi.. Una caratteristica dell’addestramento
era quella di urlare. L’esperienza aveva infatti dimostrato che dei
soldati che assaltano il nemico urlando, avevano una maggior possibilità
di metterlo in fuga. Al mattino, durante il solito appello, dovevamo urlare
il nostro nome. Una volta tornato a casa dopo la guerra qualcuno mi disse:
ma perché urli, non sono sordo. Era troppo complicato spiegargli
la ragione. A Feldstetten ci alzavamo verso le cinque del mattino, con
una certa calma, perché era sufficiente essere presenti all’appello
al sei esatte. Si lavorava fino alle sedici, poi eravamo padroni
di fare quello che volevamo, ma in genere nessuno stava fuori la notte
con il freddo e la neve che continuava a cadere. Giocavamo a carte,
poi a dormire, con i topi che passeggiavano sopra le nostre coperte.
Erano topi di campagna, che al massimo si mangiavano un po’ della coperta
o qualche briciola di pane che ci era sfuggita |