La lingua dei longobardi
Il mistero della lingua dei longobardi è quasi fitto come quello dell’etrusco. 
I Longobardi, che hanno lasciato numerose parole in eredità alla lingua italiana non sono passati "inosservati".  In Friuli ad esempio, oltre a 232 toponimi, esistono numerosi vocaboli di tale origine. Ecco quindi che troviamo la parola jökull, che sta per "capretto", oppure scroc, il caratteristico berretto di lana in uso nelle zone montane, che deriva da krokfelar, copricapo delle donne sposate usato in Scandinavia, terra originaria dei Longobardi. Anche i caratteristici nastri alla cintola adoperati, fino a pochi decenni fa, dalle donne maritate hanno origini longobarde. Poi c'è il ragnarök, terreno di una zona di pendìo, sul quale si crea, al momento del disgelo primaverile, una situazione di sassi, fango e detriti.  Questo termine proviene da "regana", divinità delle acque, da cui il toponimo Reana del Rojale.  Altre parole in lingua friulana di derivazione longobarda: crùchigne (stampella), gruse (crosta del sangue raggrumato sulla pelle), flap (floscio), bleòn (lenzuolo), stortheais (il gocciolio delle grondaie), garsona (ragazza, figlia). Ma del longobardo sono ancora in uso molte parole, sia pur modificate nella pronuncia e nella grafia, come "grinta" da "ghign", "topich" (inciampo, ostacolo), "sgurà" (lavare con energia), "müchela" (smettila, proveniente dall’originario mozzare), "magon" (afflizione), "bicocca" (tugurio, casa precaria) che nell’etimo stava  ad indicare una costruzione provvisoria, solitamente le torrette militari di avvistamento. Ma simpaticamente longobardi sono anche alcuni modi di dire: "andà in vacca", che non necessita di spiegazioni, oppure "in truscia" (andare di fretta).
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