..
Computers Vizzolo Predabissi
Le comunità monastiche
Con l’elezione dell’arcivescovo Ansemo da Rho, infatti, iniziò la serie degli arcivescovi milanesi che accettarono e portarono avanti il programma di riforma e di rinnovamento spirituale voluto da papa Gregorio VII. Aderendo allo spirito di questo movimento partito dal monastero di Cluny, in Francia, il quale chiedeva il ritorno alla povertà evangelica e l’indipendenza dall’imperatore, questi arcivescovi riformatori si staccarono dal partito imperiale nella lotta per le investiture e si proposero di impedire ogni forma di simonia, cioè di traffico delle cose sacre, nonché di compromissione della chiesa con gli interessi feudali. Per fare ciò cercarono di favorire il sorgere dei nuovi monasteri cluniacensi, tentando anche di recuperare terre e beni che la chiesa aveva precedentemente concesso in feudo a potenti famiglie nobili, come era appunto avvenuto nel caso di Calvenzano, per assegnarle ora in dotazione alle nuove comunità monastiche. Da questo processo di rinnovamento ebbe quindi origine un ulteriore contributo in quel processo di lotta contro la palude e l’incolto. Solo nelle biblioteche benedettine infatti si erano conservati gli antichi testi latini sulle tecniche di agrimensura, di coltivazione, di irrigazione e solo quei monaci dunque, in un mondo ricaduto completamente nella cultura orale e nell’analfabetismo, erano allora in grado di riscoprirle e di applicarle, stimolati dalla regola dell’«ora et labora» e favoriti dalla nuova e potente protezione degli arcivescovi. Così nella valle del Lambro fu tutto un fiorire di comunità monastiche, dal piccolo, ma più antico priorato benedettino cluniacense di Calvenzano, fondato verso il 1090, alla ben più potente abbazia cistercense di Chiaravalle (1135) ed a quella Umiliata di Viboldone (1176). I Benedettini, in particolare, mediante un’opera organizzatrice metodica, con la collaborazione dei coltivatori locali, incanalarono le acque stagnanti, derivanti soprattutto dai fontanili, per irrigare i terreni e per fornire forza idraulica ai mulini che cominciavano allora a diffondersi.
Probabilmente proprio per questa antica presenza dei Benedettini e degli Umiliati ritroveremo nei secoli successivi a Calvenzano ed a Sarmazzano le maggiori estensioni di quei prati artificiali altamente produttivi detti «marcite», la cui invenzione viene di solito attribuita appunto a questi ordini monastici. Sappiamo inoltre per certo che fin dal 1299 il priore di Calvenzano possedeva dei mulini sul Lambro «nel locho de Sancta Breda», cioè presso l’attuale cascina di S. Brera, accanto alla Rocca Brivio. Così pure possiamo rilevare, dai nomi riportati nelle antiche mappe, come numerosi appezzamenti di terreno intorno al monastero fossero destinati a un’altra attività tradizionale dei Benedettini che richiedeva un’accurata irrigazione, ovvero la coltivazione degli ortaggi. Come «brolo», cioè orto, ad esempio, è indicata tutta l’area posta tra la cascina Calvenzano e la attuale Via Verdi, dove sorge il nuovo Municipio. Diversi verbali di visite effettuate dagli abati cluniacensi del resto, tra il 1281 ed il 1400, attestano che nel convento, dove oltre al priore erano di solito presenti altri due o tre monaci, la situazione economica era quasi sempre assai florida, consentendo ai cosiddetti «frati neri» (dal colore dell’abito che indossavano), di provvedere costantemente alle tradizionali attività dell’ordine, cioè la preghiera, l’elemosina ai poveri, l’ospitalità per i viandanti e la cura degli ammalati. Un altro importante ordine monastico presente ed attivo nella Bassa era quello degli Umiliati, che pur derivando aneh’esso dal grande tronco benedettino, sorse da un movimento popolare detto dei «Patarini», cioè dei poverini, movimento religioso assai aperto alle esigenze sociali delle classi allora più diseredate e perciò anche fortemente critico nei confronti della Chiesa ufficiale. La presenza degli Umiliati, organizzati talora anche in comunità di laici, è documentata nel territorio di Vizzolo fin dal 1303 e doveva essere particolarmente significativa ed attiva a Sarmazzano che ancora nel 1476 risultava appartenere alla Casa Umiliata degli Ottazi di Milano.  Molto antica era anche la Casa di Roncolo, nel territorio limitrofo di Sordio, appartenente ad una comunità umiliata del terzo ordine (cioè laica), documentata fin dal 1136. Il nome stesso di Roncolo, come quello di Roncomarzo, in comune di Mulazzano, ci conservano il ricordo dei grandi dissodamenti promossi dai monasteri (derivando infatti dall’antico verbo «RONCARE», cioè: tagliare, estirpare, che sopravvive ancora nell’italiano «roncola» e nel lombardo «runcà») e si riferisce evidentemente ad interventi di disboscamento e di messa a coltura di terre prima occupate da boschi e boscaglie. In seguito a tali interventi, all’antico allevamento dei suini, allo stato brado, si sostituì quello delle più miti e domestiche pecore, la cui lana forniva alle Case Umiliate abbondante materia prima per una fiorente produzione artigianale di tessuti, organizzata in modo assai razionale ed altamente remunerativa. Nei secoli seguenti, tuttavia, si assiste ad una grave crisi e decadenza morale di questi ordini monastici, minati al loro stesso interno dalle eccezionali ricchezze accumulate. Nel nuovo clima fastoso e mondano del Rinascimento, i conventi degli Umiliati, in particolare, si svuotarono sempre più degli antichi valori ed ideali religiosi della povertà e del lavoro manuale per aprirsi ai lussi ed agli sfarzi più sfacciati e scandalosi del tempo, con feste, servitori, carrozze e perfino scorte di armigeri! L’arcivescovo di Milano S. Carlo Borromeo, paladino del nuovo movimento di controriforma promosso dal Concilio di Trento, tentò invano di porre fine a questi abusi con la riforma dell’ordine. Quando nel 1567 egli venne in visita pastorale a Sarmazzano, trovò la chiesa di S. Protasio e Gervasio in pessime condizioni, priva del pavimento, delle porte e di ogni paramento, e vi si celebrava soltanto nel giorno della festa dei santi cui era dedicata.
Per provvedere alle spese di restauro, S. Carlo dovette ordinare il sequestro dei beni del prete che l’aveva in affitto, come si usava a quel tempo, un tale «magnifico signore Bartolomeo Reina», che evidentemente, si preoccupava unicamente delle entrate che gli venivano da quella chiesa. Dopo anni di vera e propria «guerra fredda» tra l’arcivescovo e l’ordine degli Umiliati, questi arrivarono al punto di ordire un attentato, armando un sicario, un certo frate Gerolamo Donati detto «Il Farina», il quale, la sera del 26 ottobre 1569, sparò un colpo di archibugio contro l’arcivescovo, che tuttavia uscì illeso. Due anni dopo, il 7 febbraio 1571, il papa Pio V soppresse definitivamente l’ordine degli Umiliati, distribuendo le loro vaste proprietà ad altre istituzioni religiose. In particolare, la Casa di S. Maria degli Ottazi, cui appartenevano i beni di Sarmazzano, venne trasformata in un ospedale per i vecchi per precisa volontà di S. Carlo Borromeo, il quale assegnò altresì i beni di Sarmazzano ai Padri Oblati del Santo Sepolcro: una congregazione di religiosi molto legati alla Curia e preposti alla direzione dei seminari di Milano per la formazione dei sacerdoti, un compito assai delicato che stava appunto molto a cuore a quell’arcivescovo. La situazione, durante il ‘500, non doveva essere molto diversa anche a Calvenzano. Infatti, «i monaci se ne andarono ed il monastero con la chiesa e tutti i possedimenti caddero sotto l’istituto papale della commenda: tutto era controllato da un cardinale, il quale poteva imporre le tasse, riscuotere i tributi, esercitare il potere amministrativo ed economico». Paolo III Fornese, nel 1554, affidò i beni di Calvenzano al cardinale Ascanio Sforza, suscitando le proteste dei fittabili e di alcuni proprietari locali che, minacciati di scomunica, cedettero ed accettarono il nuovo commendatario. Nel 1559, quando poi divenne papa ii marchese melegnanese Gian Angelo Medici eon il nome di Pio IV, lo stesso che concesse l’indulgenza del Perdono a Melegnano nel 1567, egli affidò quei beni a suo nipote Carlo Borromeo. Questi, divenuto arcivescovo di Milano anche grazie alla protezione dello zio papa, venne da noi in visita pastorale nel dicembre del 1567. Allora, le rendite dell’ex-prioritario benedettino assommavano alla considerevole cifra di 7500 lire all’anno, ma la chiesa versava in condizioni piuttosto precarie. Di alcuni antichi altari minori laterali (dedicati a S. Andrea, S. Agata, S. Biagio e S. Barbaziano) venne infatti ordinta la demolizione. Solo in parte la chiesa «ampia, ma antica» era fornita del soffitto e soprattutto risultava priva delle campane, del campanile e della sacrestia, per cui S. Carlo ne ordinò la costruzione. Nella chiesa si celebrava tutte le domeniche, e talvolta anche nei giorni feriali, da parte di un cappellano, Giovanni Pietro Deano, che risiedeva nella casa annessa, «abbastanza comoda e bella». I beni di Calvenzano passarono poi, nello stesso anno, in dotazione al Collegio Borromeo di Pavia, fondato dallo stesso arcivescovo per ospitare ed aiutare gli studenti poveri meritevoli. Infine, papa Pio V (1565-1572) soppresse ufficialmente il monastero e concesse i beni di Calvenzano ai Canonici del Duomo di Milano, «i quali dovevano curarne l’amministrazione e nello stesso tempo dovevano esercitare la cura spirituale».
Torna all'inizio pagina
sito curato da