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Palazzo Brusati
Fra i primi esempi troviamo un edificio con portico e colonnato costruito nel 1724 dal Marchese Giovanni Pietro Brusati con accesso situato in via o Contrada dei Pellegrini (ora via G. Mazzini) con il cortile a destra di un altro edificio di stile gotico risalente al 1400. L’enorme edificio si collocava lateralmente all’area su cui si affacciava la chiesa di San Pietro la cui facciata occupava tutta la larghezza dell’originario slargo eretta su una scalinata che ne delimitava lo stesso sagrato. Nella costruzione dell’edificio fu evitato qualsiasi confronto o contrapposizione di stile con la chiesa e con il monastero delle suore Orsoline di Santa Caterina sul quale il maestoso edificio si affacciava dal lato dell’attuale via Trento e Trieste. Fu apportata anche una modifica alle strutture di confine del monastero che innalzando le proprie mura riportò all’interno le condizioni di propria autonomia e libertà claustrale poste in pregiudizio dall’altezza dell’edificio costruito dal Brusati.
Palazzo Visconti
L’affaccio sullo spazio pubblico delle proprietà nobiliari si pone nel Settecento come esigenza imprescindibile : l’area pubblica doveva essere non tanto una strada qualsiasi, ma possibilmente uno slargo tramutabile in piazza o uno dei principali corsi della città. Così fu per il Palazzo Visconti che fu costruito da un discendente di Bernabò Visconti quando diede origine ad un ramo collaterale della potente famiglia preposta alla Signoria di Milano, prospiciente all’omonima piazza (ora piazza Garibaldi), detta anche piazzolo Visconti. Lo storico melegnanese Ferdinando Saresani descrive il palazzo con magnifici portici e colonnati, ampio cortile e grandiosità di sale, affrescate con dipinti , che si affacciavano su di un delizioso giardino cinto di mura , riportato dalla mappa catastale, in luogo dell’attuale piazza Matteotti. Era, quindi, una concezione estremamente privatistica dello spazio urbano, che segnava comunque la contrapposizione del potere della fede e della religione di una rinnovata potenza del censo e del casato, che riaffermava una dignità nobiliare misurata sui gradi del rilievo cortigiano e del servizio prestato alla corona. Su questa concezione dello spazio urbano si concentrò tuttavia progressivamente nel corso della prima metà del Settecento anche l’interesse del potere asburgico, che, in concomitanza con l’analisi dei territorio e della proprietà fondiaria rurale realizzata con la campagna del censimento, approfondì anche l’analisi della distribuzione della ricchezza in città, interpretando la giusta tassazione di tutti i propri sudditi come un proprio compito primario. La giunta del censimento verso la metà del secolo puntò la propria attenzione sulla reale situazione fondiaria urbana, sui c.d. beni di seconda stazione che comprendevano le proprietà immobiliari, per interrompere la radicata consuetudine per la quale l’assetto della proprietà fondiaria invece che subirle determinava le forme della fiscalità. La proprietà urbana veniva valutata con la sola distinzione delle qualità del terreno occupato: Nel 1750 Pompeo Neri sottopose alla Giunta del censimento la necessità di far effettuare una visita diretta in loco per ricavarne una descrizione urbana senza tralasciare alcun edificio materialmente esistente, e senza che i proprietari potessero opporre alcun titolo di esenzione.

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