Tivoli |
Tibur, città del Lazio, oggi Tivoli. 1. L’insolita forma del nome – presso i romani ovunque Tibur – portò negli scrittori greci a
innumerevoli variazioni come per esempio Τιβούρ
(Tolom. IlI 1, 54), Τίβουρα
(Strab. V p. 238), Τίβουρις
(Stef. Biz s. v.), Τιβουρίνων
πόλις (Polib. VI 14, 8), che tuttavia non hanno alcun valore per la ricerca linguistica. L’etnico
è Tiburs da Tiburtis (così ancora Catone frg. 58 P.; sulla vecchia iscrizione
del II sec. a.C., CIL XIV 3584 = Dess. 19 Teiburtes),
più tardi con il doppio suffisso Tiburtinus
(per es. Liv. IX 30, 7. Serv. Aen. IX 358 e
altri), il mitico fondatore della città si chiama Tiburnus, più raramente Tiburtus
o Tibur (così Serv. Aen. VII
670). Una famiglia originaria di T. si chiama Tiburtius (attestazioni in W. Schulze Eigennamen 533); a Pompei
risiedevano i Lorei Tiburtini (trattati monograficamente da
Della Corte Atti e memorie della Società Tiburtina XI - XII 1931-1932, 1 segg.).
- In epoca imperiale subentrano le forme Trivortinus,
Tivortinus, Tivurtinus (Gromat. 406, 15. 250, 7. 320; da cui l’italiano travertino), che sembrano indicare
un’etimologia popolare da tres e vertere (cfr. Schuchhardt Vokalismus d.
Vulgärlat. I 38. Kel1er Lat. Volksetymol.
24). Prima di riflettere sul nome, si deve brevemente raccontare la “storia”
della sua fondazione. Secondo una versione seguita da Catone (frg. 56 P. =
Solin. II 8; dopo questo Marziale Cap. VI 642), fu l’arcade Catillo il fondatore
di T., secondo un’altra i tre fratelli Catillo, Coras e Tibur o Tiburto (Serv.
Aen. VII 670). Secondo un Sextius a noi ignoto (Solino II 8), questi tre
fratelli sono i figli dell’argivo Catillo che venne in Italia dopo la morte di
suo padre Anfiarao e qui generò i tre fratelli. La città ricevette il nome dal
più vecchio dei tre, dopo che essi avevano cacciato i Sicani dalla città “di
Sicilia” (= T.) (depulsis ex oppido
Siciliae veteribus Sicanis a nomine Tiburti fratris natu maximi urbem
vocaverunt). Invece, come ci riferisce Plinio (n. h. XVI 237), fu Tiburno,
figlio di Anfiarao, l’unico fondatore di T. (su di lui cfr. Wissowa Myth. Lex.
V 935 e sotto, pag. 835), e anche molto prima della fondazione di Roma (cfr.
Porfir. Orazio, carm. I 7, 13). Nella letteratura romana, specialmente nei
poeti augustei, T. era ritenuta una fondazione argiva (per es. Orazio, carm. II
6, 5 Tibur Argeo positum colono ...;
ulteriori attestazioni in Dessau CIL XIV p. 365, 12 e Ella Bourne A Study of
Tibur, Diss. Baltimore 1916, 9 seg. Di questi racconti possiamo usare assai poco. La fondazione argiva della
città è forse da mettere in relazione in parte con la tradizione di Ercole, in
parte con l’equiparazione di Giunone, qui molto venerata, con l’argiva Era. Con
il ricorso ad Anfiarao è legittimato l’oracolo di Albunea (vedi sotto pag. 833
seg.). Poiché l’indovino Anfiarao aveva non solo famosi oracoli, come per
esempio quello presso una sorgente a Oropo (Paus. I 34, 5), ma in tale contesto
era ritenuto anche figlio di Apollo (p. es. 10 Hygin. fab. 70, 1; cfr. Deubner
De incubatione 55, 1). Questa genealogia è dunque una costruzione puramente
italica poiché la tradizione greca non conosce i “figli”. Infatti Coras è
l’eponimo della città di Cora nel Lazio, Catillo è da mettere in relazione con
l’omonimo monte presso T. Ha invece uno sfondo assolutamente storico il
racconto della cacciata dei Siculi. E’ noto che i Siculi, nella loro migrazione
verso sud, possedettero un tempo Roma (cfr. p. es. Varr. 1. 1. V 101;
Macrob. I 7, 28-30) e il Lazio. (Dion.
Hal. II
1,
Βάρβαροί τινες
ήσαν
αύτόχθονεσ
Σικελικοί
λεγόμενοι
πολλά καί άλλα
της Ίταλίας
χωρία
κατασχόντες,
ων ούκ όλίγα
διέμεινεν…
μνημεϊα…έν οϊς
καί τόπον τινών
όνόματα
Σικελικά
λεγόμενα…). Questi όνόματα Σικελικά, ai quali Norden Altgermanien 112, 4 si richiama
con forza, dobbiamo prenderli seriamente sotto ogni aspetto (cfr. anche il
ricco materiale in Conway-Johnson-Whatmough The Prae-Italic Dialects II 431
segg.). Nel nostro caso il passo di Solino sopra citato dimostra che una
parte piuttosto grande del Lazio, perlomeno i dintorni di T., si chiamavano
Sicilia (Stef. Biz. indica Sinuessa come πόλις
Σικελίας), e, ciò che nel nostro
contesto è di estrema importanza, un quartiere della città di T. si chiamava
più tardi ancora Σικελικόν
(Dion. Hal. I 16, 5 …παρ΄ οίς
[Τιβουρτίνος]
έτι καί είς
τόδε χρόνου
μέρος τι τής
πόλεως
όνομάζεται
Σικελικόν). Hanno
un’ulteriore relazione con questo l’odierna città di Ciciliano, a est di T., e
la città degli Irpini Sicilinum. Non si può non menzionare che W. Schulze
Eigennamen 551 percorre una via del tutto diversa perché riconduce il Σικελικόν
alla gens dei Sicilii (etr. sicle). Se questo fosse giusto, non
sarebbe più il caso di parlare di dominio dei Siculi a T., e noi dovremmo
incominciare la storia di T. con il dominio delle Gentes etrusche (vedi sotto,
pag. 820 seg.). Ma la migrazione dei Siculi è assolutamente attendibile e la
loro presenza a e presso T. può forse essere ulteriormente sostenuta, oltre
alle argomentazioni già citate. – Dunque un tempo, nella T. più tarda,
abitarono i Siculi. Ma poi vennero dalla Grecia i tre mitici fratelli o, un
poco meno mitici, (certamente dalla direzione contraria) gli aborigeni,
scacciarono i Siculi e da allora chiamarono la città T. (Catone op. cit.) Perciò diventa
attuale la domanda se il nome della città o del fondatore Tiburnus (questa forma è meglio attestata di Tibur o Tiburtus) possa
raccontarci altre cose sulle “Origines”. Nulla è più pericoloso di
un’interpretazione etimologica affrettata. Un accostamento diretto con Tiberis (Walde². Ribezzo Riv.
Indo-Gr.-Ital. XIV 1930, 69. 91) non conviene a causa della differenza di
quantità (Tībur, Tĭberis); la loro comune
riconduzione al “sabino” (Varr. r. r. III 1, 6 ‘collis’) o meglio preitalico
(Norden Altgerm. 107) tēba fallisce per l’oscurità della
derivazione. Bisogna dunque tentare di trarre qualche conclusione dalla formazione
del nome. Nomi geografici simili ve ne sono solo sporadicamente: innanzittutto
la città dei Volsci Anxur (in seguito
Tarracina), il fiume in Etruria Ausur, affluente dell’Arno (Rutil. I
566; in Plin. n. h. III 50 Auser), i Gurgures o Burbures montes nelle montagne sabelliche (sopra. vol. VII pag.
1945). Non sappiamo neppure se la somiglianza non sia solo casuale. Anxur p. es. forma l’etnico con il
suffisso etrusco-latino -as (su
questo da ultimo Norden Altgerm. 100 segg.) Anxurnates,
mentre a Tiburs si adatterebbero
meglio di tutto i Camertes, abitanti
della città umbra di Camerinum. Con
questo materiale non si potrebbe dunque arrivare a nulla, ma un aiuto
fondamentale ce lo offre Tiburnus,
per il quale i parallelismi sono più numerosi e, in parte, tali per cui si
possono trarre ulteriori conclusioni: Falernus,
Alburnus, Liburnus, Privernum, Taburnus, Viberna, Salernum, Tifernum, Lavernalis. Certo, anche questa lista non sembra essere del tutto
omogenea. Cadute in anticipo sono le numerose formazioni col suffisso etrusco tr + n (W. Schu1ze Eigennamen 337), come
Voltur, Volturnus ecc., poiché le formazioni Tibur e Tiburnus si
riferiscono ancora a un’epoca preetrusca. Tuttavia è indubitabile che
nella presente lista possono esserne comprese alcune come formazioni etrusche
in rn (o solo come formazioni analoghe). In altre, invece, le
forme - basi perdute possono liberare Tibur
dal suo isolamento. A fare un passo avanti ci aiuta Tifernum. Vi sono tre città che hanno questo nome con ognuna un Tifernus mons e fluvius. Il fiume Tifernus
può (W. Schulze 540) essere identico all’amnis
Tiberinus, come pure una delle città nominate ha l’appellativo Tiberinum.
Questa sarebbe una formazione analoga vicinissima (l’analogia sarebbe ancora
più completa se potessimo fidarci della forma Tiber in Fronto p. 160
Nab.; certamente non si può mai essere abbastanza prudenti in equazioni che
portano a Tiberis, vedi E. Fraenkel
sopra vol. XVI pag. 1656). Ma l’equiparazione non è possibile, come detto, per
la differenza di quantità. A una conclusione più decisiva ma anche molto più
ardita ci porta Liburnus. I Liburni
sono gli abitanti “illirici” del Picenum (Norden Altgerm. 226 segg.; per il
nostro nesso è particolarmente importante Plin.
n. h. IlI 112 Siculi et Liburni plurima
eius tractus tenuere ...); Λίβυρνον
όρος è una montagna nel Sannio settentrionale (Polib.
IlI 100, 2), paragonato a ragione col già menzionato mons Tifernus (Liv. X 30, 7; oggi Montagna del Matese),
così che Nissen It. Ldk. II 786, 2 vorrebbe scrivere Τίβυρνον (approva Philipp sopra vol. XIII pag. 146). Tuttavia
si deve riflettere se qui non vi sia un ulteriore esempio del mutamento,
scoperto da Kretschmer Glotta XIX 279 segg., fra t e l iniziali. Se questo
mutamento dovesse trovare conferma, risulterebbe più chiara la provenienza del
nome Tibur. Ciònonostante T. non
diventerebbe una città “liburnica” poiché anche qui è d’ostacolo la differenza
di quantità (Tībur : Lĭburnus)
ma la si potrebbe ritenere, pur con la massima riserva, una formazione illirica
e ammettere che questi “Illirici” nella loro migrazione verso sud diedero un
nome alla città, così come i Siculi a una parte di essa: Σικελικόν. Oppure, se
noi equipariamo questi Siculi per metà mitici con gli Illirici (v. Wi1amowitz
Glaube d. Hellenen II 4, 2), arricchiremmo non solo il patrimonio di nomi
illirici del territorio sabino, ma con il Σικελικόν
avremmo in Dionigi di Alicarnasso anche un garante del dominio e dell’eponimia
illirica a T. II. 1. Stranamente, la ricerca storica trova a T.
solo pochissimo sostegno dai ritrovamenti archeologici. Dobbiamo prescindere
dalla tomba non databile, arredata “alla maniera etrusca” (v. Duhn Ital. Gräberk. I 517. Schachermeyr
Etr. Frühgeschichte 204); rimangono
così solo i ritrovamenti dell’anno 1926, che Antonielli Not. d. scav. 1926, 210
segg. ha descritto dettagliatamente. Si tratta di numerose sepolture al di
sotto della piccola Cascatelle, secondo v. Duhn Vorgesch. Jahrb. IlI 298
testimonianze di un insediamento sabino, come se ne trovano in gran numero a
Praeneste e come ci si doveva aspettare a T. per la sua posizione. Ma secoli
dividono i Siculi sopra descritti dai Sabini e noi non siamo purtroppo più (o
non ancora) in grado di riempire questo spazio temporale. – Qui di seguito si
possono fornire solo alcune disiecta membra che non danno un quadro unitario ma
possono diventare più complete col tempo. Antonielli Not. d. scav. 1927, 215
segg. ha controllato una tomba conosciuta già da lungo tempo e l’ha riferita,
con l’approvazione di v. Duhn Vorgesch. Jahrb. IV 309 (cfr. anche Kaschnitz-Weinberg Arch.
Anz. XLII 1927, 114) a una divinità
d’acqua femminile, probabilmente Albunea (vedi. sotto). – Il nome del sacerdote
d’Ercole a T., cupencus, è stato
ultimamente trattato spesso senza che si sia giunti a un risultato definitivo.
(Serv. Aen. XII 538f. Sane sciendum
cupencum Sabinorum lingua sacerdotem vocari ... sunt autem cupenci Herculis
sacerdotes ...). Dovremo rimanere
all’indicazione Sabinorum lingua,
poiché il tentativo di Cortsen (Die etruskischen Standes- und Beamtentitel
1925, 128), di collegare il cupencus con
l’etrusco cepen ‘sacerdote’ (su
questo vedi Leifer Studien z. antiken Ämterwesen I 282) incontra difficoltà
(cfr. Sittig Gnomon VII 36), e anche l’interpretazione di Danielsson (Glotta
XVI 88, 2) ‘coppiere’ (per cūpa)
è respinta con ragione da J. B. Hofmann (in Wa1de³ sub. voce) (l’etrusco kusenkuś è ricordato da Kretschmer
in Runes Glotta XXIII 274, 3). - v. Duhn Vorgesch. Jahrb. IlI 299 dice sabina
l’iscrizione arcaica trovata a T. nell’anno 1926 e qui riprodotta secondo la
lettura dell’editore Mancini Not. d. scav. 1926, 215 segg.: [m]ed mitat capillor viged ni sfeti sd.
I tentativi di lettura e interpretazione di Comparetti (Rend. Linc. 1926, 268
segg.), Ribezzo (Riv. Indo - Gr.- Ital. 1926, 185 segg.), Ceci (Rend.
Linc. 1926, 448 segg.) e Pagliaro (Atene e Roma XXXVI 1934, 165 5) sono
purtroppo molto azzardati. Lommatzsch, che nei supplementi del CIL I² 2658
pubblica l’iscrizione con la fotografia di Mancini nella forma seguente: . ed mitat kapi \ . or vipe d \ n..\ ni.
sφeti. sd, è dubbioso sulla
possibilità di una spiegazione e crede che abbiamo davanti a noi un testo
etrusco. Anche se il testo ci rimane di primo acchito incomprensibile, non si
deve condividere lo scetticismo di Lommatzsch per quel mitat, che compare anche sull’iscrizione di Duenos (non è un
caso!). – Anche se l’iscrizione può risalire al IV secolo a.C., la sua lingua è
naturalmente più antica; se sia “sabino” e impossibile dirlo. - Infine si deve
anche fare cenno della singolare formazione Anio, Anienis (K. Meister Lat.- gr.
Eigennamen I 1 segg.) e del fatto che le sue cascate si chiamano tullii Tiburtes (Plin. n. h. XVII 120.
Fest. p. 352 Tullios alii dixerunt esse silanos, ali rivos, alii vehementes
proiectiones sanguinis arcuatim fluentis
quales sunt Tiburi in Aniene . . .; cfr. Sigwart Glotta VIII 141.
Carpentier Glotta IX 51 seg.). 2. Non c’è una tradizione né storica né
archeologica che T. sia mai stata possedimento etrusco. Tuttavia gli
innumerevoli cognomi d’origine etrusca parlano una lingua chiara. I nomi
singoli non hanno certo alcuna forza probativa, poiché sono senz’altro
possibili da un lato migrazioni di famiglie, dall’altro successivi cambiamenti
di nome secondo il modello etrusco, per non parlare poi della ben nota
ambiguità dei nomi propri italici. Ma dei Coponii
(v. Münzer, sopra vol. IV pag. 1216) possiamo segnalare a T. cinque membri, il
più vecchio d’epoca sillana (Cic. Balb 53. CIL XIV 3540. VI 34000. XIV 3538. 3740). Anche i Cossinii (Münzer sopra vol. IV pag.
1671) furono per secoli residenti a T: infatti al L. Cossinius Tiburs menzionato in Cicerone (Balb. 53) e
appartenente all’epoca sillana si devono da poco aggiungere – a prescindere da
CIL XIV 3755 – una vestale Cossinia e
un L. Cossinius Electus di un’iscrizione funeraria del III secolo
d.C (cfr. Hallam Journ. rom. stud. XX 14 seg.). Se entrambe le famiglie
sono molte volte attestabili anche altrove, (cfr. Thes 1. 1. Onom. II 587. 667),
si deve tuttavia prendere assolutamente in considerazione il loro diretto
trasferimento dall’Etruria (W. Schulze Eigennamen 276, 3. 158 seg.). Se
osserviamo le più antiche testimonianze delle nostre iscrizioni, le due
iscrizioni questorie (CIL XIV 3655. 3686; v. sotto pag. 826) mostrano nomi come
C. Caesilius (v. anche M.
Caesilius: 3736), C. Heiulius, M. Turpilius, M.’ Popilius, che potrebbero essere senza eccezione di origine
etrusca. (W. Schu1ze 135. 459. 246. 216 443). Vecchio è anche C. Placentios (CIL XIV 3563. W. Schulze
52. 291, 5); dal loro aver rivestito la carica di edile si può desumere una
certa epoca per C. Aufestius (3538. 3710.
W. Schulze 348) e per C. Munatius
(3678. W. Schulze 362). Una stimata famiglia sembrano essere stati i Sabidii (CIL XIV 3674. 3699. 3704
segg.), che egualmente non erano d’origine latina (W. Schulze 222). Devono
inoltre essere citati C. Nunnuleius (3546.
W. Schulze 453), la cui formazione nominale ricorda il succitato C. Heiulius, L. Graecius Numitorius (3628), C. Fuficius (3771), M.
Lactidius (Eph. ep. IX 905- 907), M. Varenus (CIL XIV 3687), L. Maecius Donatus (Eph. ep. IX 917), C. Volcacius Artemidorus (Eph. ep. IX
921) e altri, per i quali si possono facilmente trovare i parallelismi etruschi
in W. Schu1ze. Questa è soltanto una prima piccola selezione; in essa qualcosa
può essere non certo, o ammettere un’altra interpretazione, ma nella loro
totalità questi nomi attestano il predominio degli etruschi nel territorio di
T. – più d’uno dei nomi citati compare anche a Praeneste – in un’epoca della
quale non possediamo più alcuna notizia. Non si può certo dimenticare che si
devono registrare anche nomi latini o italici come per es. i Plautii, i Rubellii Blandi (CIL XIV 3555f. 3576), che a Roma sono giunti ad
alte cariche (v. Nagl sopra vol. I A pag. 1158 seg.), forse anche la famiglia
di M. Octavìus Herennius (v. E.
Fraenkel sopra vol. XVI pag. 1653; diversamente W. Schulze 174), che ha scritto
de sacris saliaribus Tiburtium (Macrob.
II 12, 17), accanto al quale sono da mettere non solo il mitico antenato,
fondatore del culto e pifferaio M.
Octavius Herennius (Macrob. III 6. 11. Serv. Aen. VIII 363), ma anche gli Herennii
(CIL XIV 3660) effettivamente dimostrabili a T. Non sicuri sono i Potitii e i Pinarii: forse appartengono al gruppo etrusco (W. Schulze 216. 366. 416). 3. T. era, come tutte le oppida italiche (cfr. Kornemann Klio V 84 segg.), punto centrale di
un territorio sovrano. Fortificato a mo’ di rocca in posizione elevata, in
tempi pericolosi poteva offrire agli abitanti dei vici nella pianura rifugio e protezione. Ma per sua natura gli
erano date anche altre possibilità: poteva organizzare e dominare il traffico
fra i monti degli Equi (e il loro retroterra) e la fertile pianura
(testimonianze per es. in Nissen II 613, 1). Be1och RG 178 valuta l’estensione
del territorio a 351 km² (De Sanctis Storia dei Romani I 387, 3 su 500 km²) e
indica sulla carta I i confini approssimativi. Solo Roma era più grande, anche
Praeneste e Ardea sono di gran lunga dietro a T. Naturalmente, nel corso del
tempo, il territorio era sottoposto a oscillazioni. Ma poiché su queste
oscillazioni non sappiamo nulla, (fino alla conquista di Roma), devono a questo
punto essere conteggiate tutte le località che furono messe in conto a T. o
delle quali si può desumere l’appartenenza a T. A oriente, Varia (dalla quale
proviene un’ iscrizione con la tribus tiburtina Camilla: CIL XIV 3472) Empulum
(Liv. VII 18. 2), Sassula (Liv. VII 19,1), a sud Aefula (Ashby Papers III 132
seg.), Querquetulum (Rosenberg Herm. LIV
136), occasionalmente anche Pedum (Liv VIII 13, 4 segg. Rosenberg 135), a
occidente Aquae Albulae (CIL XIV 3534 Beloch RG 176) e la regione dove poi fu
costruita la villa Adriana (Beloch 178). Naturalmente i confini non sono chiari
nel dettaglio, soprattutto verso Gabii, Praeneste e anche verso Pedum, finché
questa città fu indipendente. Nel periodo più antico, a T. avranno regnato dei re, come ovunque nel
Lazio (v. Gelzer sopra vol. XII p. 944); testimonianze dirette non ne abbiamo,
a meno che non vogliamo vedere il ‘primo’ re in Tiburnus, il ‘fondatore’ della
città. A T., all’incirca nel VI secolo a.C., il dictator, in qualità di
ordinario funzionario annuale, sarà subentrato al re, come possiamo di nuovo
dedurre da analoghe condizioni nelle altre città latine; come ulteriore
testimonianza, sebbene egualmente indiretta, può essere citato il fatto che
alla testa della lega latina, di cui anche T. faceva parte, (v. sotto pag.
823), c’era un Dictator. E’ possibile che T. prima o poi, forse sotto
l’influsso romano, sia passata a una
doppia burocrazia. La costituzione dei due pretori (cfr. Beloch Ital. Bund 170. Kornemann
Klio XIV 200 segg. Ge1zer sopra vol.
XII pag. 945), che per esempio è tramandata espressamente a Praeneste, fu
desunta da Rosenberg Rh. Mus. LXXI 125 per T. dagli appellativi sacrali, dalla
Fortuna Praetoria (CIL XIV 3540 = Dess. 6243: solo a T., v. W. F. Otto sopra
vol. VII pag. 35) e dagli di Praetorii (CIL XIV 3554 = Dess. 3415),
se sono le stesse divinità, la cui assistenza i pretori di T. richiesero per
governare la comunità. La comunità, la res publica di
T. (così chiamata già sulla vecchia iscrizione della metà del II secolo a.C.,
CIL XIV 3584 = Dess. 19 ... rei poplicae
vostrae ...; altrimenti documentabile solo dall’epoca romana, ma certo
secondo un vecchio modello res publica
Tiburtium: Dess. 1071. 6228; cfr. la res publica Laurentium Lavinatium:
Wissowa Herm. L 32), aveva la sua rappresentanza politica nel consiglio
comunale e nell’assemblea sovrana dei cittadini, oppure, espressa secondo il
modello romano, nel senatus populusque
Tiburs; la stessa formulazione si
trova anche a Lanuvium, Lavinium, Praeneste, Cora e Signia (vedi Ge1zer 945;
cfr. anche la visione d’insieme in Dessau Inscr. lat. sel. IlI p. 674), ma –
eccetto Roma – in nessun luogo così frequente come a T. Le decisioni del senatus Tiburtium (Dess. 1889) – i
membri si chiamavano decuriones Tiburtes
(CIL XIV 4250 seg. 3586. 3599) – venivano formulate, come in molte altre città,
de senatu sententia o senatus consulto (cfr. Dessau III p.
675). 4. Un piccolo cantone poteva fare al meglio una ‘grande’ politica solo
con altri affini per stirpe. Non è un caso che la storia più antica di T. a noi
accessibile sia nello stesso tempo la storia della lega latina. Con una
formulazione per metà mitica ciò significa che T. fu fondata sotto Latinus
Silvius, il ‘quarto re’ di Alba Longa (Orig. gent. Romae 17, 6 ... regnante Latino Silvio coloniae deductae
sunt Praeneste, Tibur, Gabii, Tusculum, Cora, Pometia, Labici, Crustumium,
Cameria, Bovillae ceteraque oppida circumquaque; anche senza le ultime
parole sapremmo che questa lista è incompleta poiché Diodoro [VII 5, 9] conta
18 città). Anche se il nome del re può essere non storico (Schur sopra vol. XII
pag. 939), per noi sono più importanti l’indipendenza di Alba Longa da un lato
e l’unione con le città latine dall’altro. La posizione di predominio di Alba
Longa è mantenuta in seguito ancora in forma sacrale nei santuari di Giove
Laziare e di Diana di Ariccia. Non sappiamo se la federazione fosse
rivolta fin dall’inizio contro Roma. Ma è significativo che Virgilio chiami Tibur
superbum fra le città latine che insieme a Turno combatterono contro
Enea (Aen. VII 630). Si possono registrare
anche singole persone, come i tre fratelli Tiburtus, Coras e Catillus (670
segg.), Venulus (VIII 9. XI 741 segg.) e Remulus: se dietro gli ultimi due nomi
vi sia un nocciolo storico, non è stato ancora appurato. Grande valore storico possiede la documentazione
sacrale, conservatasi in Catone, della consacrazione del bosco a Diana aricina,
che Rosenberg (Herm. LIV 144) colloca nella seconda metà del VI secolo e Gelzer
953 nel periodo dopo il 507, Catone frg. 58 P. in Prisc. IV 129 H.: lucum
Dianium in nemore Aricino Egerius Baebius Tusculanus dedicavit dictator
Latinus. hi populi communiter: Tusculanus,
Aricinus, Lanuvinus, Laurens, Coranus, Tiburtis, Pometinus, Ardeatis, Rutulus.
La composizione della lega risulta dal fatto che Roma non è presente fra gli
stati federati e che, come ha già osservato Rosenberg, il territorio federale,
che comprende metà della superficie del Lazio, circondava Roma circolarmente.
Come Roma potesse resistere a questa stretta di cui era partecipe anche T.
sotto la guida di Tusculum, non lo sappiamo. In ogni caso, la situazione nella
prima guerra tramandataci (che Ge1zer 954 a ragione ritiene storica, cfr. anche
Ed. Meyer
Kl. Schr. II 298 segg.) è la stessa.
Tutte le città latine erano alleate contro Roma, e anche qui Tusculum aveva il
comando (Flor. I 11,1 Omne Latium Mamilio
Tusculano duce. Liv. II 19,4. 21,3. Dion. Hal. VI 2; sulla posizione di comando di Tusculum cfr.
Altheim Griech. Götter im alten Rom 132). La
guerra terminò con la vittoria dei romani sul lago Regillo nell’anno 499 o 496.
Il foedus Cassianum - il primo
trattato a noi noto fra Roma e le città latine - risalirebbe allora,
corrispondentemente alla tradizione, all’anno 493. Dal testo della federazione,
nel migliore dei casi incompleto, in Dion. Hal. VI 95 si può desumere che,
oltre alla federazione, si determinò anche il commercium e la divisione della preda di guerra. Il trattato deve
senza dubbio aver contenuto disposizioni di ampia portata quanto al diritto
statale e privato, perché ancora intorno al 100 a.C. dei cittadini di T. e di
Praeneste vennero trattati seguendo le sue delibere (Cic. Balb. 53). Anche l’ulteriore storia del V secolo è riconoscibile solo a grandi
linee. Esso sarà sicuramente stato dominato dall’ampliamento della supremazia
di Roma attraverso la federazione con gli Ernici, dall’accoglimento di Tusculum
nella federazione statale romana, dalla fondazione di colonie (Ardea, Signia,
Circei ecc.) e altro. Già dal 451 Roma deteneva la guida della festa latina
(Ge1zer 957). E’ indubbio che tali misure servivano a una coercizione tesa
all’espansione e che le altre città latine si sentivano minacciate e dovettero
difendersi. – Un’altra possibilità di indebolire le città nemiche era la
chiamata a Roma di potenti famiglie. Questo accadde, come già Münzer
Adelsparteien 44 seg. suppone, con la Gens Plautia, domiciliata a T. (CIL XIV
3605 - 3608 = Dess. 921. 964. 986) e a Praeneste. In questo contesto si
può forse menzionare anche il trasferimento da T. a Roma dei Potitii e dei
Pinarii. Per quanto ne sappiamo, essi non hanno mai avuto a Roma un ruolo
politico importante – i Potitii si estinsero presto, come è noto -, ma
portarono a Roma il culto di Ercole (v. sotto pag. 830 seg.), che a Roma era
rimasto il loro culto gentilizio fino all’anno 311. Le città avranno anche fatto guerre tra loro e contro nemici esterni. Se
può essere anche solo un collegamento eziologico che la danza dei Salii sia
stata introdotta a T. post victoriam
Tiburtinorum de Volscis (Serv. Aen. VIII 285), il fatto della vittoriosa
lotta dei T. (purtroppo non databile) può tuttavia avere assoluta valenza
storica. - Anche il grande possesso di terre di cui si è già parlato sopra, T.
lo avrà conquistato poco a poco. Alcune delle località nominate, come bene ha
osservato Ashby Papers of the British School at Rome III 1905, 132 seg., erano
fortificate a protezione di T. Con l’ausilio di un’iscrizione trovata a Monte
S. Angelo in Arcese (CIL XIV 3530) gli riuscì di identificare questo luogo con
l’arx Aefulana (Liv. XXVI 9, 9). A
nord, partendo da T., una strada portava al fortificato Colle Turrita (Ashby
172), a sud verso Monte S. Angelo. Inoltre, secondo Ashby, appartenevano alla
cerchia delle fortificazioni anche Varia, Empiglione e Ciciliano. All’interno
di questa cerchia, mura e porte (Liv. VII 9, 2) servivano naturalmente alla
sicurezza della città. – Qui si possono menzionare anche gli scomparsi Sanates. Nella glossa mutila, Fest. p.
321 sub voce, T. è nominata tre volte. Perciò è assolutamente pensabile una
stretta relazione di questa popolazione con T.; sono invece indimostrabili le
ampie conclusioni di Rosenberg (Herm. LIV 132; d’accordo Philipp sopra vol. XIV
pag. 986), che Sanates sia un vecchio nome del cantone per cui il populus di T. in epoca antica si sarebbe
chiamato Sanates Tiburtes. La catastrofe gallica (390) sembra avere indotto all’attività anche le
città latine, soprattutto Praeneste e T. (Flor. I 11, 7). Ma Praeneste p. es.
fu presto vinta (382). A queste battaglie, come anche a quelle dei decenni
successivi, T. non partecipò poiché, quando si venne a guerra nell’anno 361, si
fece riferimento a vecchie controversie (Liv. VII 9, 2 ...cum multae ante querimoniae ultro citroque
iactatae essent ...). In
quest’anno ritornarono i romani dopo la conquista della città degli Ernici
Ferentinum. Allora i T. chiusero loro le porte in faccia. Questa fu la causa
diretta della guerra. Che i T. fossero alleati dei Galli lo dimostrano gli
avvenimenti della guerra. Infatti in questo periodo i Galli subirono una
sconfitta, si rifugiarono nel territorio tiburtino e, appoggiati dai T., si
recarono in Campania (Liv. VII 11, 1). In seguito a ciò il console C. Poetelius
Balbus marciò l’anno successivo (360) contro T. Ma i Galli fecero ritorno dalla
Campania e devastarono insieme ai Tiburtini l’ager Labicanus, Tusculanus
e Albanus. Battuti davanti a Roma, i
Galli, contro i quali combattè un dictator, si ritirarono verso T. (sicut arcem belli). I Tiburtini vollero
accorrere in loro aiuto ma furono spinti, insieme ai Galli, verso T. dal
console che si manteneva nelle vicinanze della città. C. Poetelius Balbus
ottenne in seguito un doppio trionfo de
Gallis Tiburtibusque (annotato anche nei Fasti triumphales CIL I² p. 170).
I Tiburtini risero di questo trionfo e spiegarono di non essere stati battuti
in nessun luogo (Liv. VII 11). Una volta, nell’anno seguente, marciarono di
notte verso Roma. Dopo il primo scompiglio i romani si accorsero che erano solo
i Tiburtini e li cacciarono via facilmente (VII 12, 1 - 4). – Nell’anno 356 il
console M. Popilius Laena portò guerra ai Tiburtini, li scacciò senza fatica e
devastò le loro campagne (VII 12, 1-2). Nell’anno 354 i romani conquistarono
dai Tiburtini Empulum (VII 18, 2) e nel 353 Sassula. Pertanto i Tiburtini si
arresero (cfr. Pap. Oxy. I nr. 12 Col I 5
Τιβουρτενοι
υπό ̀Рωμαίων
καταπολεμηθέντες
έαυτούς
παρέδοςαν) e il console
ottenne un trionfo de Tiburtibus (VII 19, 1). Questa tradizione annalistica è certamente molto denigrata, ma questa
volta essa fa chiaramente riconoscere il piano dei romani di logorare e isolare
T. Al logoramento servirono le ripetute campagne belliche, all’isolamento la
conquista degli oppida appartenenti a T. – Anche le altre guerre
servirono allo stesso scopo. All’ultima grande insurrezione delle città latine
(340) T. avrà forse partecipato; le città furono sconfitte l’una dopo l’altra.
Si giunse così all’attacco di Pedum nell’anno 339, fra i cui federati T. viene
espressamente nominata. Che tra i protettori di Pedum compaiano fra gli altri
T. e Praeneste si spiega con il fatto che la conquista di Pedum dovette
significare una grave perdita proprio per queste città. Nel primo anno i romani
non conseguirono alcun successo ma nel 338 conquistarono finalmente Pedum e per
questo T. venne divisa da Praeneste (Liv. VIII 13, 4; cfr. Oxy.
Pap. I nr. 12 Col. II 25 segg. III 7
seg.); i Tiburtini perdettero inoltre una parte della loro campagna (agro multati), presumibilmente non a
causa delle ultime guerre ma per la passata alleanza con i Galli (VIII 13,8. 14,
9). Altre misure di Roma furono desunte da Rosenberg Hem. LIV 125 segg. dalla
lista della lega latina conservata in Plin. n. h. IlI 69. Su questa lista
compaiono gli Efulani fra i populi indipendenti; poichè Ashby è
riuscito, come si è detto sopra, a determinare la posizione di Efula entro
l’anello fortificato di T., la città può essere stata staccata da T. solo ad
opera di Roma (Bucciarelli Rend. Linc. 1912, 125. Rosenberg 135). Allo stesso
modo si deve intendere la menzione di Querquetulum sulla lista, se si deve
identificarla con l’odierna Corcollo a sud di T. (Rosenberg 136). L’insurrezione delle città latine terminò con la vittoria dei romani. In
seguito a ciò non vi fu più una politica autonoma (Ge1zer 963), sebbene
Praeneste e anche altre città mantenessero la loro autonomia. Ma quasi l’intero
Lazio apparteneva alla federazione romana così che un’impresa bellica sarebbe
stata senza speranza fin dall’inizio. Da ora in poi si devono riportare solo eventi di
poca importanza. E’ dubbio se la marcia verso T. dei tibicines romani nell’anno
311 a.C. sia stato più di un aneddoto. I nostri garanti riferiscono che i
Tiburtini li costrinsero, su desiderio dei romani, a ritornare a Roma (Liv. IX
30, 5 segg. Val. Max. II 5, 4). Poiché T. era sempre ‘estero’, la città poté
essere scelta come soggiorno dagli esiliati (Polib. VI 14, 8. Liv. XLIII 2,10. Ovid.
Ex Ponto I 3, 82… exulibus tellus ultima
Tibur erat... Be1och Ital. Bund 215. 221.
Dessau CIL XIV p. 365. Rosenberg Rh. Mus. LXXI 126). – All’inizio della seconda guerra
punica (217) T. fu luogo di raccolta delle truppe romane (Liv. XXII 12, 1);
dopo la guerra Siface, re dei Massesili morì a T., dove i romani lo avevano
portato (Liv. XXX 45, 4; cfr. Val. Max. V 1, 1). – All’incirca verso
la metà del II secolo a.C. pare vi siano state serie differenze d’opinione fra
Roma e T. Una legazione di T. si recò a Roma e le riuscì di appianare la
questione davanti al senato. Di che cosa si trattasse in quell’occasione, non
lo sappiamo; il senatus consultum è
perduto, conservata è solo la ‘lettera’ del pretore L. Cornelio ai Teiburtes, che questi fecero scolpire
nel metallo e collocare nel loro foro (CIL I² 586 = XIV 3584 = Dess. 19). – Pur
potendo T. restare indipendente, chi voleva arrivare ad avere influenza
politica andava a Roma e acquistava la cittadinanza romana; è un caso che noi
siamo informati della naturalizzazione dei Coponii e Cossonii (Cic. Balb. 53;
v. sopra pag. 820). L’incorporamento di T. avvenne dopo la guerra dei
confederati; sappiamo per caso che T. partecipò alla rivolta di Cinna nell’anno
87 a.C. (Münzer sopra vol. IV p. 1283 seg.) (Appian. bell. civ. I 65). Mancano
i particolari; solo le testimonianze scritte sui municipes Tiburtes e sulla magistratura municipale della città
mostrano che a T. era stata tolta anche l’apparente indipendenza. III. Dei magistrati della T. indipendente si è già detto sopra. Quando
T. divenne municipium romano dopo la guerra dei confederati, i pretori
saranno stati sostituiti dai quattuorviri,
che all’occasione vengono differenziati dall’aggiunta iure dicundo o aedilicia
potestate (cfr. Dessau CIL XIV p. 366). Due iscrizioni poste dai quaestores (CIL XIV 3655. 3686 = Dess.
5577) risalgono forse, secondo la supposizione di Dessau (d’accordo Bourne 42),
all’epoca anteriore alle guerre dei confederati. Si sono conservate
antichissime tracce anche dell’ufficio del censore (CIL XIV 3685 = I 1120 = Dess. 6229. XIV 3541 = I 1113). Poiché
questo incarico è dimostrabile nel Lazio solo in un territorio ristretto
intorno a T., Praeneste e Treba, ma non p. es. a Tusculum, Aricia e Nomentum,
Rosenberg Rh. Mus. LXXI 124 seg. suppone molto arditamente che il censore in
queste città fosse autoctono e che Roma lo abbia preso in prestito forse nel V
secolo a.C. da T. o da Praeneste. Stranamente, questo titolo era sottoposto nel
periodo romano a delle oscillazioni: a T. il censore si chiamava quinquennalis (Dessau CIL XIV p. 367), a
Tusculum aedilis lustralis (Leuze Herm, XLIX 112 segg. Latte Gött. Nachr. 1934, 74 segg.). – Del consiglio comunale e dell’assemblea dei
cittadini (senatus populusque Tiburs)
si è già parlato sopra. Fra le altre cariche di T. merita particolare interesse lo strano
ufficio del curator fani Herculis
Victoris (CIL XIV 3544. 3599. 3601. 3609. 3673 seg. 3689. 4242. 4258 =
Dess. 3416. 1061. 1101. 1104. 1889. 1044. 6233). E’ una carica sacra (Rosenberg
Herm. XLIX 271) o profana (Lafaye Revue de l’hist. de religions
XVIII 86. Wissowa Herm. L 17,2)? Il paragone di Rosenberg con
l’aedilis lustralis di Tusculum non è
convincente perché Leuze loc. cit. ha dimostrato contro l’opinione di
Rosenberg, probabilmente a ragione, che questa carica è profana. Anche
formulazioni analoghe portano alla sfera profana. L’altra analogia del curator tempuli [Iovis Dolicheni] dell’Aventino
(CIL 406 - Dess. 4316) deve rimanere da parte poiché l’iscrizione è solo del
III sec. d.C. e l’istituzione non sarà stata molto più vecchia. Un’importanza
maggiore si deve attribuire al curator
aput Iovem statorem (di Alba Fucens: CIL IX 3925 = Dess. 6536) e al magister fani Dianae di Capua (CIL X
3918. 3924 = Dess. 6304 seg.). Ma queste iscrizioni hanno un semplice valore di
testimonianza e non ci aiutano nell’interpretazione. Diverso discorso per le
iscrizioni che mostrano il curator in
una forma più generale ed ampia. Su parecchie iscrizioni di T. compare la
carica di curator operum publicorum et
aedium sacrarum (C1L XIVI 3593 3599. Ephem.
epigr. IX 897 = Dess 1185. 1061. 9010), che è dimostrabile però anche in altre città, come nella
lontana Stuhlweissenburg (Pannonia), Ephem. epigr. IV 425 (Dess. 1062, dove
però compare solo il curator aedium
sacrarum, ma lo stesso uomo era anche, come fa notare Dessau, secondo la
testimonianza di un’altra iscrizione CIL VI 1008, curator operum publicorum) a Praeneste, CIL XIV 2922 (= Dess. 1420)
e recentemente a Lavinium (Rev. arch. 1934. 241). Non è necessario ammucchiare
altri esempi, facilmente accessibili con l’ausilio della raccolta di Dessau. Le
iscrizioni riportate sono sufficienti a dimostrare che, come gli altri curatores dovevano sorvegliare lo stato
edilizio delle costruzioni profane e sacre, anche il curator fani Herculis Victoris non amministrava un ufficio sacro ma
controllava, nello specifico, le estese costruzioni del tempio di Ercole (v.
sotto). IV. 1. Dei culti locali di T. si deve nominare prima di tutti il culto
di Ercole (Strab. V p. 238 Τίβουρα…έν
η τό Ήράκλειον…
Marziale. IV
62, 1 Herculeum Tibur; cfr. I 12, 1.
IV 57, 9. VII 13, 3. Properzio II 32, 5. Schol. Iuven XIV 90 Boehm sopra vol.
VIII pag. 582 segg.; per me non accessibile G. H. Ha1lam Cenni sul culto di
Ercole Vincitore in Tivoli e dintorni: Atti e memorie Società Tiburtina XI/XII
1931/32 394-400), che porta l’appellativo Victor sulla maggior parte
delle iscrizioni (CIL VI 3544. XIV 3541. 3546. 3554f. 3601. 3609. 3612. 3673f. 3689.
4258 = Dess. 3416. 3412. 3401. 3414
seg. 1101. 1025. 1882. 1889. 6233; inoltre CIL XIV 3553 = Dess. 3418 H. V.
Certencinus. 3545. 3548 = Dess. 2642.
2706 Hercules Invictus. 3542 = Dess.
3442 H. Domesticus. 3543 = Dess. 3452 H.
Saxanus). La leggenda della fondazione del
tempio ce la racconta Microbio IlI 6, 11 dal secondo libro dei Memorabilia di
Masurio Sabino: M. Octavius Herennus (così Münzer sopra vol. VIII pag. 662) o
Herennius fu originariamente tibicen,
in seguito commerciante. Egli consacrò la decima dei suoi guadagni a
Ercole. Assalito dai pirati durante un viaggio per mare, si difese con forza e
vinse (victor recessit). Ercole gli
fece sapere in sogno che aveva combattuto per lui (sua opera servatum). In seguito a ciò Ottavio eresse una aedes e un signum, ...Victoremque
incisis litteris appellavit (da Wissowa Ges. Abh. 260. Boehm 558 non da
riferire alla Aedes presso l’Ara Maxima, ma al tempio a T.). Sembra che questo
Masurio Sabino attinga le sue conoscenze dall’opera di Octavius Herennius de sacris saliaribus Tiburtium, in quo Salios Herculi institutos operari diebus
certis et auspicato docet (Macrobio IlI 12, 7). La leggenda riceve il suo
giusto senso solo se indaghiamo sulla relazione del pifferaio e commerciante
Octavius Herennius con lo scrittore Octavius Herennius. Non si può parlare di identità
(così Lugli Bollettino dell'Associazione archeol. Romana V 1915, 121 seg.): il
primo è uno scrittore attestato da documenti, l’altro un fondatore di culto di
mitici tempi remoti. Ma lo scrittore Octavius Herennius può aver fatta propria
una leggenda familiare o averla inventata egli stesso, nella quale rivendicava
la gloria della fondazione cultuale per la propria famiglia (due membri della
famiglia, T. Herennius, padre e figlio - quest’ultimo IIIvir iur. dic. a T. - CIL
XIV 3660). Una storia di fondazione simile sembrano aver messo in circolazione
a Roma i Pinarii (forse anche i Potitii) (v. sotto), che hanno entrambe una
somiglianza di principio con la storia di fondazione di Valerius Antias, che
fece portare a Roma dal suo leggendario antenato Valesius il culto del Dis
pater e di Proserpina (Val. Max. II 4, 5). Con questa leggenda dal valore
storico più che dubbio (ma purtroppo non controllabile), sono di colpo spiegate
eziologicamente due cose così diverse come l’appellativo Victor e la creazione della decuma.
E’ più probabile che Ercole abbia ricevuto l’appellativo Victor poiché aiutò in
guerra i Tiburtini; a questo si accorda il fatto che i salii a T.
rappresentassero la danza delle armi al servizio di Ercole in ricordo della
vittoria che avevano ottenuto sui Volscii (Serv. Aen. VIII 285). In tal modo si
spiegherebbe una peculiarità della quale si sono meravigliati già gli storici
romani: i Salii che c’erano p. es. anche ad Alba Longa (sopra vol. I pag.
1302), a Lavinium (CIL XIV 2947) e a Tusculum (Serv. Aen. VIII 285), erano
perciò a T. sacerdoti di Ercole (non di Marte), poiché Ercole era anche il dio
della guerra dei T. e così potevano essere riferiti a lui anche i riti che
spettavano a Marte (accanto ai Salii v’erano altri speciali sacerdoti di
Ercole, detti a T. cupencus [Serv. Aen. XII 538, v. sopra pag. 819]). La
creazione della decuma (CIL XIV 3541
= Dess. 3412) invece è da mettere in
relazione col fatto che Ercole era anche dio del commercio e del traffico. Nel
tempio di Ercole c’era anche il thensaurus,
che non era destinato solo alla decuma
ma a tutto il tesoro statale e che deve esserci stato ancora al tempo di
Antonino Pio (Appian. bell. civ. V 24 έν
αίς μάλιστα
πόλεσι [cioè Lavinium, Nemus e T.] καί νυν
είσι θησαυροί
χρημάτων ίερων
δαψιλείς; cfr. CIL XIV 3679. 3679 a
= Dess. 6245 ... sub thensauro Herculis
et Augusti ...). Così come era protettore del traffico e del commercio,
Ercole era anche dio dei pesi (anche a Roma Hercules
ponderum: CIL VI 366. Wissowa Religion² 279, 8): la cosiddetta ‘mensa ponderaria', che secondo
un’iscrizione (CIL XIV 3687) fu eretta da M. Vareno Difilo, magister Herculaneus, faceva parte del
complesso di edifici del tempio di Ercole e conteneva i pesi e le misure
ufficiali di T. (cfr. il tempio di Cerere a Roma i cui aediles avevano esercitato le funzioni di polizia annonaria:
Wissowa Religion² 300. Latte Gött. Nachr. 1934, 74 segg.). Data l’enorme importanza che acquistò il santuario di Ercole a Tivoli –
paragonabile ad esso è Giove Laziare sui monti Albani, la Diana Nemorense di
Ariccia, il tempio della Fortuna a Praeneste, quello di Castore a Tusculum -, è
comprensibile che la struttura del tempio fosse usata per altre funzioni;
pertanto Augusto amministrava la giustizia nell’atrio del tempio (Suet. Aug. 72),
certamente secondo un’antica tradizione. E quando si diffuse anche in Italia il
culto dell’imperatore (L. R. Taylor Divinity of the Roman Emperor 163 segg.),
esso venne collegato con quello di Ercole. Ai tempi di Augusto l’appena
nominato M. Vareno Difilo aveva già costruito una sala appartenente al
complesso di Ercole pro salute et reditu
Caesaris [Augusti] (scoperta intorno al 1920: cfr. Pacifici Journ. Rom. Stud. X
90 segg. Paribeni Not. d. scav. 1925,
249 segg.), dove fu trovata una statua imperiale con la testa di Nerva (non
appartenente alla statua: Ashby The Roman Campagna in Classical Times 113). –
Alla stessa unione di culto, espressa da questo collegamento spaziale e dalla
formulazione sopra menzionata ... thensauro
Herculis et Augusti..., servì in epoca imperiale anche il collegio degli Herculanii Augustales (numerose
attestazioni in Dessau Inscr. sel. III p. 705), fra le quali ci piace dar
rilievo all’ufficio del magister Hercul. Aug. (CIL XIV 3540. 3665 = Dess. 6243. 6236) e dei quaestores
ordinis Augustalium Tiburtium (CIL XIV 3601 = Dess. 1101), ma
particolarmente alla formulazione mag.
Herculaneo et Augustali (XIV 3665 = Dess. 6236), che riconferma in modo
auspicabile il concrescere dei due culti. Naturalmente T. non è solo con questo
culto; basti ricordare gli Augustales
aeditui Castoris et Pollucis a Tusculum (Dess. 6214ff. Wissowa Religion²
80, 4). Come quasi tutti i problemi del culto di Ercole, è incerto anche quello
della sua provenienza. Peterson crede che esso sia giunto dalla Campania a T. e
da lì a Roma (Local Cults of Campania 22 seg.), invece Bayet, che ha dedicato
al culto di Ercole una monografia estesa e molto meritoria (Les origines
de l'Hercule romain 1926; cfr. a tal proposito le osservazioni critiche di
Toutain Rev. Ét. lat. VI 1928, 200 segg.), crede che, al contrario, Ercole sia
giunto a T. da Roma (prima di lui, già Lugli 122, il cui importante lavoro sul
culto romano di Ercole Bayet sembra aver trascurato). E’ indubitabile che i
romani, data l’enorme popolarità del mito di Ercole, non lo avranno conosciuto
solo attraverso una città latina di campagna, ma da qui a introdurlo ce ne
corre molto. Una considerazione molto generale è già per la priorità di T. (per
essa parteggiò dopo gli altri Wissowa Religion² 272 segg.). Se il tempio di
Giove sul Campidoglio doveva adempiere le funzioni del Giove Laziare sui monti
Albani o se il tempio di Diana sull’Aventino fu costruito secondo il modello
del tempio di Diana ad Ariccia, allora il nuovo culto di Ercole presso l’Ara
Maxima, preso da T., potrebbe avere egualmente servito a questa tendenza
politica centralizzante. Ma accanto a questa riflessione generale (e in sé non
impegnativa) abbiamo altri argomenti specifici. Il culto romano di Ercole sull’Ara Maxima fu originariamente un culto
gentilizio dei Potitii e dei Pinarii (Serv. Aen. VIII 269. Macrob. III 6, 12):
mentre i Potitii non sono più attestabili – Servio dice anche che la famiglia
si era estinta presto -, si possono localizzare i Pinarii a T. con una qualche
probabilità (Pinus, ‘figlio’ di Numa, è originario di Cures: Plut. Num.
21). Leggiamo il nome di un Pinarius addirittura su un’iscrizione di T. (CIL
XIV 3604 = Dess. 1043). Inoltre non è di poca importanza che una cappella di
Iuppiter Praestes, una divinità tiburtina dimostrabile – là anzi Hercules
Victor deve aver dedicato un altare a Iuppiter Praestes (CIL XIV 3555 = Dess.
3401) – si trovasse presso la casa di Pinarius, il padre dell’imperatore
Massimo (Hist. aug. Maxim. et Balb. 5, 3): la famiglia avrà mantenuto le
relazioni con T. in questa forma anche in tarda epoca imperiale. A far capire
quanto fosse stretta la relazione della famiglia con Hercules Victor può
bastare una sola attestazione: Mamert. Paneg. Maxim. 1, 3 ... testatur Herculis ara Maxima et Herculei
sacri custos familia Pinaria principem illum (sc. Herculem)
tui generis ac nominis Pallantea moenia adisse victorem ... Anzi, perfino la stessa storia dei pirati
che Octavius Herennius a T. pretende per la sua famiglia, esisteva anche nella
tradizione dei Pinarii: Mamert. Paneg. Maxim. 13, 4 seg. ... aedes vestrorum numinum frequentando et identidem, sicut a maioribus
institutum est, invocando statorem Iovem Herculemque victorem. Hoc enim quondam
illi deo cognomen ascripsit is, qui cum piratas oneraria nave vicisset, ab ipso
audivit Hercule per quietem illius ope victoriam contigisse. Alla provenienza da T. dei Pinarii, difesa p. es.
da Wissowa Religion² 275, non credono Boehm 565 e Bayet 319, perché i Pinarii
sono attestabili in iscrizioni anche altrove e da T. può essere addotta
un’unica iscrizione. Ma è un caso che delle circa 20 iscrizioni su Pinarius in
Dessau solo quest’unica abbia relazione col culto di Ercole? Allo stesso
modo Boehm loc. cit. e Bayet 264 vogliono confutare la testimonianza di
Virgilio, che qui non è stata ancora menzionata: a Virgilio (Aen. VII 285) non
spetta alcuna forza probativa perché egli rappresenta il culto di Ercole dei Potitii e dei Pinarii sull’Ara Maxima
semplicemente com’era stato a T. Questo non lo possiamo più controllare. Ma
Virgilio può aver fatto una tale equiparazione solo se era la corrente delle
relazioni fra i due luoghi di culto. – Dobbiamo trarre la stessa conclusione
quando su un’iscrizione dell’Ara Maxima (CIL VI 313 = Dess. 3402), che si
riferisce al mitico Potitius, la divinità riceve il nome, caratteristico per
T., di Hercules Invictus. Un’altra corrispondenza fra T. e
Roma la mostrano i Salii. Come si è già detto, a T. essi servivano Ercole e la
loro importanza è ben attestata non solo da numerose iscrizioni, ma anche
dall’opera menzionata sopra di M. Octavius Herennius de sacris saliaribus Tiburtium (Macrob. IlI 12, 7). L’ufficio dei salii è certamente dimostrabile anche
altrove sporadicamente (cfr. Wissowa 555, 2), ma, oltre Roma, in nessun luogo
così tanto come a T. (CIL XIV 3601. 3612. 3674. 4258 = Dess. 1101. 1025. 1889. 6233);
degna di nota è anche la denominazione salius
Collinus, che delle 10 iscrizioni riportate in Dessau (III p. 565) è
dimostrabile quattro volte a T. (Dess. 1043 seg. 1072. 1104; in parte membri
del ceto equestre e senatorio e possessori romani di ville a T.: cfr. Wissowa
Herm. L 8; vi si aggiunge un’altra iscrizione pubblicata da Schneider -
Graziosi Boll. Archeol. comun. XLIII 1916, 292 segg., la quale, se è giusto il
completamento, offre la forma salius Quirinalis finora non documentata da
iscrizioni [solo letterariamente: Serv. Aen. VIII 285]) e quattro volte a Roma:
è sperabile che anche questo non sia un capriccio del caso. Infine bisogna ancora una volta
accennare alla uguaglianza dell’appellativo Victor
e al fatto che anche nella
dedicazione dell’altare di Ercole si può osservare una certa concordanza: a T.
Hercules Victor avrebbe dedicato l’altare a Iuppiter Praestes (CIL XIV 3555 =
Dess. 3401), a Roma a Iuppiter Inventor (Διί
Ευρεςιω) (Dion. Hal. I 39. Solin. I 7. Orig. g. R. 8). 2. Per quanto attiene al culto di
Giove, l’epiteto fa supporre nel nome dello Iuppiter Praestes menzionato sopra
una concezione non diversa dallo Hercules Victor. Non troviamo a Roma
esattamente lo stesso nome; è attestata la dea Praestita della città sabina dell’Aquila (CIL IX 4322 = Dess. 4030;
cfr. Praestitia: Tertull. ad nat. II 11, Praestana:
Arnob. IV 3), l’umbra Prestota (Tab.
Iguv. VI b 57 ; cfr. Buecheler Umbr. 98), Iuppiter
praestabilis presso Benevento (CIL IX 1498 = Dess. 3030; cfr. Iuppiter
praestitus della pannonica Poetovio:
CIL III 4037 = Dess. 3029). Ma se possiamo a buon diritto ricordare il
romano Iuppiter Stator che conferisce
resistenza all’esercito (Wissowa² 122), allora non solo è evidente la vicinanza
a Hercules Victor, ma anche un altro epiteto è tolto a T. dal suo isolamento: Iuppiter Territor (CIL XIV 3559 = Dess.
3028). Quest’ultimo nome, col quale si può paragonare l’osco Iuppiter Versor (Conway 5) e lo Iuppiter Depulsor di parecchie città,
viene equiparato da Carter De deor. Rom. cogn. 57 e da Wissowa² 122, 10 allo Ζευς Δειμάτιοσ
del Mons sacer (Dion. Hal. VI 90, 1). Poiché pare che sia stata la Plebs per
prima a fondare nella sua Secessio questo culto (Fest. p. 318), è molto
evidente il prestito da T.: in ogni caso, per una tale fondazione
politico-sacrale doveva essere scelto un culto indipendente da Roma 3. Anche la Iuno Curitis di T. deve avere avuto in sé una natura bellica.
Serv. Aen. I 17 habere enim Iunonem currus certum est. sic autem esse etiam
in sacris Tiburtibus constat, ubi sic precantur ,Iuno curilis tuo curru
clipeoque tuere meos curiae vernulas'. Non è questo il luogo per dibattere
i difficili problemi etimologici che si collegano al nome (cfr. da ultimo W. F.
Otto Philol. XLIV 197 segg. Wissowa Religion² 186 segg. Bicke1 Rh. Mus. LXXI 559 segg.
Kretschmer Glotta X 147 segg. Deubner Röm. Mitt. XXXVI/XXXVII 16). Purtroppo la preghiera non è assolutamente
vecchia; è il primo tentativo etimologico di spiegare il nome
contemporaneamente attraverso currus e curia e forse, come si può
supporre da Serv. Aen. I 8 (Curitis, quae utitur curru et hasta), anche
attraverso il “sabino” curis “hasta” (Paul. Fest. p. 63), che si poteva
intuire dal nome (perciò per Reitzenstein Straßburger Festschr. z. 46. Versamml. d. Philol.
1901, 153 1 e Wissowa² 189, 3 non si
deve cambiare tuo curru in tua curi; che la denominazione della
vettura non sia per niente assurda, lo mostra il riferimento di Otto [202, 61]
alla Iuno Sospita, che sulle monete della gens Procilia va con la vettura, a
prescindere dal fatto che scudo, lancia e vettura dovevano anche essere gli
attributi necessari del guerriero divino; Jordan in Preller Röm. Myth. I³ 279,
3 ricorda la άσπίς Ήρας ad
Argo [vedi p. es. Gruppo II 1126, 1]). Per questi tentativi di interpretazione
la preghiera non è vecchia (Reitzenstein loc. cit.), Bicke1 567 la data con
ogni probabilità prima della metà del II sec. a.C. Ma questa datazione può
naturalmente valere solo per il testo della preghiera a noi noto, che deve aver
sostituito una preghiera molto più vecchia alla dea della guerra Iuno Curitis.
Poichè una simile preghiera poteva avere il suo vero senso solo nei grandi
contrasti bellici del IV sec. a.C.; nel II secolo, invece, quando i T. erano di
fronte a Roma formalmente ancora indipendenti ma politicamente di nessuna
importanza, essa poteva continuare a esistere solo sulla base di una
conservazione sacrale. A Roma il culto non era autoctono, ma solo dopo la
conquista di Falerii nel 241 a.C. introdotto da là (Wissowa² 187. W. F. Otto
199 seg. Bickel 559); probabilmente anche il culto di T. era d’origine falisca
(L. R. Taylor Local Cults of Etruria 68), certamente la sua introduzione a T.
deve essere di un periodo molto più antico. La sua grande importanza per T. e
per il resto del Lazio si evidenzia fra l’altro dal fatto che a T., Aricia,
Lanuvium, Lavinium e Praeneste le era sacro un particolare mese (Ovid. fast. VI
61 segg.) – Molto più tardi, quando generalmente si credeva alla fondazione
argiva di T. (vedi sopra), la si è equiparata alla Hera di Argo (cfr. la dedica
di C. Blandus alla Iuno Argeia: CIL XIV 3556 = Dess. 3098). 4. Nei tempi antichi forse non
alla pari di Ercole quanto a fama, Albunea, la decima sibilla, superò per
importanza tutte le divinità locali nella tarda antichità e nel Medioevo (v.
Wissowa sopra. vol. I pag. 1337. Rzach vol. II A pag. 2096). Anche se la
sibilla tiburtina del Medioevo conservava tratti fondamentali della tradizione
antica (a tal proposito cfr. p. es. Rzach sopra vol. II A pag. 2170 segg.), per
il nostro rapporto è importante naturalmente solo la vecchia divinità locale.
Il nostro testimone più antico è Varrone, Lact. inst. 1 6, 12 M. Varro ...
in libris rerum divinarum ... ait decimam (Sibyllam fuisse) Tiburtem nomine
Albuneam, quae Tiburi colatur ut dea iuxta ripas amnis Anienis, cuius in
gurgite simulacrum eius inventum esse dicitur tenens in manu librum, cuius
sortes senatus in Capitolium abstulerit (altre prove Thes. 1. 1. I 1502; le
ultime parole da cuius sortes ... in poi stanno in due preziosi
manoscritti di Lattanzio, fra loro apparentati, ma non sono state
accolte da Brandt nel testo; Wissowa² 536, 6 ha messo in dubbio il loro valore
senza dire però come l’“interpolatore” sia giunto alle sue comunicazioni). Essa
era dunque strettamente unita - ciò deve essere qui sottolineato – all’Aniene,
così strettamente che si dice la sua statua fosse stata trovata nei flutti del
fiume. Essa dava le sortes sull’Aniene, come p. es. la Fortuna a
Praeneste o la Carmenta (con la quale fu occasionalmente equiparata: Serv. Aen.
VIII 336) o Egeria e raggiunse una tale importanza che a un certo momento (sicuramente però prima
dell’inizio del I sec. a.C.) la si annoverò fra le 10 sibille (secondo Maass De
Sibyllarum indicibus, Diss. Greifswald 1879, 58 la fama della sibilla cumana
avrebbe fatto sì che Albunea fosse accolta nella lista); ma ancora prima
dell’inizio del I secolo, se in Lattanzio sta a buon diritto l’aggiunta che il
senato, dopo l’incendio del tempio di Giove sul Campidoglio, fece portare a
Roma le sortes di lei. L’altro nostro materiale completa
benissimo questo quadro, con l’eccezione della famosa descrizione di Virgilio
che però ha portato a gravi complicazioni: Aen. VII 81 segg. At rex
(Latinus) sollicitus monstris oracula Fauni, fatidici genitoris, adit lucosque
sub alta consulit Albunea, nemorum quae maxima sacro fonte sonat saevamque
exhalat opaca mephitim. Questi versi sono così difficili che B. Rehm (Das
geogr. Bild in Verg. Aen. 76) risolleva giustamente la questione: chi o che
cosa è Albunea? I versi indussero i commentatori di Virgilio a rispondere che
Albunea si trovava in Laurentinorum silva (Prob. Georg. I 10). Per la
ricerca moderna questo distacco di Albunea da T. era tanto più gradito perché a
T. non ci sono effettivamente vapori sulfurei come invece nel territorio di
Lavinium, l’odierna Pratica di Mare (Carcopino Virgile et les origines d'Ostie
1919, 338 segg.; un po’ diverso B. Ti1ly Journ. rom. stud. XXIV 1934, 25
segg.). Ma questi tentativi di localizzazione al di fuori di T. si devono
rifiutare fin dall’inizio. Il cosiddetto scolio di Probo è tratto - come
osserva giustamente Wissowa sopra vol. I pag. 1337 - dai versi di Virgilio: il
teatro dell’Eneide è Lavinium, non T., e dunque anche l’oracolo dovrebbe essere
spostato a Lavinium. E’ come se Virgilio – a questa conclusione ci autorizza lo
studio di B. Rehm su tutta l’Eneide (cfr. anche Heinze Virgils epische Technik³
176, 2) - avesse dato, senza precisa conoscenza delle località, una descrizione
convenzionale per l’oracolo del sogno. Perciò è anche sicuro mettere Albunea a
T., secondo le nostre altre testimonianze, anche se là non si può scoprire la
minima traccia di sorgenti sulfuree. – Dobbiamo lasciare da parte anche Fauno
poiché solo Virgilio è il nostro garante. Più fedele alla realtà è la
famosa descrizione di Orazio che la nomina insieme all’Aniene e al vecchio
Tiburno (carm. I 7, 12 domus Albuneae
resonantis et praeceps Anio ac Tiburni lucus et uda mobilibus pomaria rivis;
negli scolii che ne fanno parte è detto: delectabile
nemus est, consecratum Albuneae nymphae a qua et nomen accepit; dedica con
iscrizione: CIL XIV 4262). Essa è dunque collegata alle acque dell’Aniene e al
bosco di Tiburno: forse essi ci aiutano a comprenderla più profondamente. Però
di Tiburno sappiamo troppo poco; tuttavia è sufficiente l’indicazione che egli
discendeva dall’indovino Anfiarao che era figlio di Apollo (v. sopra). Anche
l’Aniene era figlio di Apollo (GLM p. 146 R). Il fiume si chiamava
originariamente Albula, come il
Tevere. E come il Tevere dovrebbe aver ricevuto il nome da Tiberinus Silvius,
re di Alba che trovò la morte nel fiume (Varr. 1.1. V 80 Paul. Fest. p. 4. Isid. XIII 21,27),
così anche Annius
Τούσκων
βασιλεύς morì in analoghe
circostanze (Plut. Parall. min. 40). Essa è legata ancora più strettamente a
queste relazioni attraverso il suo nome. In sé, come ninfa dei monti, potrebbe
essere fatta derivare dalla radice preindoeuropea *alb “monte” (cfr. p.
es. Alba Longa, più in Walde -
Hofmann 27), ma come ninfa delle sorgenti è in relazione con albus, come la località termale Aquae Albulae (iscrizione dedicatoria
per Albula e Albula Isis: Gatti Not. d. scav. 1926, 417) e Albula. Così si rende comprensibile anche la particolarissima
formazione: Alb-unea sembra essere
una forma più antica per il non meno strano albineus
“biancastro” (Pallad. IV 13, 3. Leumann Lat. Gr. 205), per le sue quantità
-˘˘˘ straordinariamente adatto all’esametro (Leumann 206, che
menziona tali aggettivi formati dal greco. -ειος, p.
es. Hectoreus, Romuleus, Herculeus ecc.). Forse il nome deve la sua nascita alla
poesia epica, cioè alla poesia oracolare, dando questo nome alla sibilla per
variare il nome Albula (così Stat.
silv. I 3, 75) secondo il modello di Erythrea,
Amalthea ecc. (la forma greca è Αλβουναία,
Schol. Plat. Fedr. 244 b … δεκάτη
η Τιβουρτία
μέν γένος, όνομα δέ Αλβουναία; cfr. Suid.
s. v. Lyd. mens. IV 47.
Geffcken Die Oracula Sibyll. p. 3, 50. Mras Wien. Stud. XXVIII 44. 55). Il passo di Virgilio già
menzionato sopra, Aen. VII 81 segg. sub
alta ... Albunea, nemorum quae maxuma
sacro fonte sonat saevumque exhalat opaca mephitim, ha creato difficoltà
anche in un altro senso: Serv. Aen. VII 84 racconta di un dio collegato
all’Albunea di T… alii Mephitim deum
volunt Leucotheae conexum. Ora c’era sì una dea dei vapori sulfurei, Mefitis
(Wissowa Rel.² 246. Philipp sopra vol. XV pag. 118 seg.), ma nessun dio
dimostrabile con questo nome; poiché inoltre a T. non c’erano esalazioni
sulfuree, devono averlo inventato per primi i commentatori di Virgilio (cfr.
Wissowa sopra vol. I pag. 1337. B.
Rehm Das geogr. Bild d. alt. Ital. in Verg. Aen. 76 seg.). 5. Antichissimo
sembra essere stato il culto di Tiburno, il “fondatore della città” (cfr.
Wissowa Myth. Lex. V 935). Purtroppo ci sono solo piccoli frammenti dai quali
possiamo trarre le nostre conclusioni. Innanzitutto Plin. n. h. XVI 237 Tiburtes
quoque originem multo ante urbem Romam habent. apud eos extant ilices tres
etiam Tiburno conditore eorum vetustiores
apud quas inauguratus traditur. Era
dunque un bosco sacro (Horat. carm. I 7, 13
Tiburni lucus. Suet. p. 47 R. ... domusque eius
[sc. Horati)
ostenditur circa Tiburni luculum. Steph. Byz. s. Τίβυρις
... έν η Τίβουρνίνιων
τέμενος
...), nel cui punto centrale stavano le tre antichissime querce. E’
anche probabilmente giusto che il nome di Tiburno sia stato associato solo in
seguito ad esse, che dunque il culto degli alberi fosse la cosa principale. Non
è difficile trovare parallelismi nel Lazio. Di una venerabile sacra quercia sul
Mons Vaticanus con iscrizione “etrusca” racconta Plinio nello stesso passo; anche sul Mons Algidus presso
Tusculum c’era una quercia, centro di un culto antichissimo (Liv. III 25).
Presumibilmente anche il bosco di Tiburnus era in un posto eccellente della
città; anzi, se esso fu inaugurato là, egli deve aver scelto per questo un
posto più alto, come Numa il Campidoglio (Liv. I 18, 6). – Oltre a questo
bosco, allo stesso modo è da intendere il luogo di culto di Albunea (vedi
sopra) e anche il culto di Diana Nemorensis (Marziale VII 28, 1 ... Tiburtinae … silva Dianae. CIL XIV
3537 Diana Opifera Nemorensis; cfr.
3536 Diana Caelestis. IG XIV 1124 Κύρια
Αρτεμις. Wissowa 247, 4). La Diana Nemorensis è notoriamente originaria di
Ariccia; fu presa da là quando T. era membro della lega latina. In modo analogo
il culto della Fortuna (CIL XIV 3540 praetoria,
3539 opifera, 3561 Augusta) è preso probabilmente da
Praeneste: anche in esso possiamo riconoscere l’espressione della situazione
politica, cioè della lunga alleanza fra T. e Praeneste, come anche, al
contrario, alcuni dei templi latini di Ercole saranno fondati a partire da T. 6. Ci sarebbe
da menzionare ancora il culto di Vesta che possiamo desumere da delle
iscrizioni fatte per le Vestali – attestabili oltre che a Roma solo ad Alba e a
Lanuvium (Wissowa² 157, 4) – e (v. sotto) da documenti medievali (CIL XIV 3677.
3679 = Dess. 6244 seg.; su una nuova iscrizione del III sec. d.C. trovata
insieme alla tomba della vestale Cossinia, si veda Hallam Journ. rom.
stud. XX 1930, 14 seg.). 7. Dei sacerdozi di T. sono stati menzionati il cupencus e i salii (sopra) in relazione al culto di Ercole; delle Vestali
abbiamo appena parlato. Ci sarebbe ancora da menzionare il flamen Dialis, il sacerdote di Giove, che al di fuori di Roma
compare solo a Lanuvium, Lavinium e T. (CIL
XIV 3586 = Dess. 1158): a T. egli apparteneva a Iuppiter Praestes
menzionato sopra. – E’ anche attestabile l’istituzione degli auguri (CIL XIV
3672f., cfr. Macrob. III 12, 7... diebus certis et auspicato ... [riferito
ai Salii a T.]; anche il fondatore della città, Tiburno, viene messo in
relazione con la disciplina augurale: Plin.
n. h. XVI 237). Per la grande diffusione di questo sacerdozio in Italia
non è pensabile una trasmissione da Roma:
si paragoni contro Wissowa 526, 5 la lunga lista in Dessau Inscr. sel. III p. 569, p. es. Dess. 1368 aug.
Laur. Lavin., Dess. 1416 augur Lunae,
Dess. 5673. 6650 augur Suasae ecc. VI. La topografia della città è studiata molto
insufficientemente; fino a poco tempo fa non c’era una pianta della città
antica. Beloch RG 213 stima la superficie della città vecchia in 16 ha, quindi
essa era circa grande come la città palatina, molto più piccola di Ardea,
Praeneste e Lavinium. Il corso delle mura è descritto da V. Pacifici Tivoli nel
Medio-Evo 29 segg. (Atti e memorie della società Tiburtina V-VI 1925/26), al
quale dobbiamo anche il primo tentativo di una pianta della città (in seguito
W. Bernard ha gentilmente disegnato la nostra pianta). Delle cinque porte cittadine che già Nibby ha
accertato, ne possiamo citare, con l’ausilio della nostra tradizione scritta,
soltanto due: Frontin. aqu. urb. Rom. 6 concipitur Anio vetus supra Tibur vicesimo miliario extra portam † RRA ...; il passo è certamente corrotto, ma che già Alberto Cassio (1756) con la sua
congettura Baranam si fosse avvicinato al giusto, lo dimostra
l’altomedievale fundum veranum
studiato da Pacifici 29, 8. L’altra porta CIL XIV 3679 = Dess. 6245 …por/ta Esquilina ...: qui il
completamento di porta è stato messo
in dubbio da Hülsen, sopra vol. VI pag. 681, 33, poiché l’esistenza di una porta Esquilina a T. è stata sfruttata
da Nissen It. Ldk. II 495 per estese conclusioni storiche (riguardo allo
sviluppo di Roma). Ma il completamento è più che probabile: la romana porta
Esquilina era tanto rivolta verso T., che con molta esagerazione si poteva
affermare che da lì si riusciva a vedere una villa a T. (Cic. de orat. II 68,
276). Se d’altra parte l’iscrizione tiburtina per designare il luogo dice il
nome ... ta Esquilina, nessun
completamento è tanto evidente come porta,
a prescindere dal fatto che la parola Esquilina mantenutasi
inequivocabilmente potrebbe portare anche in altri completamenti alle stesse
conseguenze che Hülsen vorrebbe evitare. Nei lavori topografici l’antica tradizione ci
pianta in asso. L’unica cosa che sentiamo è che un quartiere cittadino si
chiamava Σικελικόν ancora in epoca augustea (Dion.
Hal. 1 16, 5; v. sopra pag. 817). Materiale prezioso e finora non usato (ad
eccezione di Nibby Analisi ... della carta de' dintorni di Roma III 173 segg.,
che usa la bolla di Benedetto VII, e Pacifici) ci viene offerto invece dai
documenti papali pubblicati nel 1880 da L. Bruzza Regesto della chiesa di Tivoli (cfr. anche il materiale in P. F.
Kehr Italia pontificia II 75 segg.). Qui non si può fornire la rielaborazione
ancora mancante, però un piccolo saggio dimostrerà l’importanza del materiale.
Un documento di Benedetto VII. dell’anno 978 d.C. (Bruzza 32 seg.) nomina i
seguenti quartieri: ... regionem totum in
integrum que appellatur foro. et vicu patricii. et oripo cum aecclesia sancti
alexandri. et aquimolis cum forma antiqua iuxta episcopio. Item ecclesiam sancti pauli. et
regione que vocatur formello cum gradas suas. et cum omnibus ad eas
pertinentibus sibi invicem coerentem. Et inter affines ab uno latere
silice publica. Qui descendit ad porta maiore et usque in porta scura. A
secundo latere muro civitatis tyburtina. usque in pusterula cum aeclesia sancti
pantaleonis cum turre et scala marmorea. et deinde ascendentem per via publica.
usque ad murum antiquum sancti pauli ex utraque vero partem ipsum murum et pervenit
usque in muro civitatis. Similiter et regione que
appellatur plazzula infra ipsa civitate. Ab uno latere muro ipsius civitatis.
Et a secundo latere silice que pergit ad posterula de vesta. Et a tertio sive a
quarto latere monasterio sancti benedicti. Necnon et alium regionem totum in
integrum qui vocatur castro vetere. cum aecclesia sancte mariae et sancti
georgii. que sunt diaconie. Ab uno latere fossatum unde pergit aqua in vesta.
ex utraque vero parte murus civitatis circumdatur…Segue una lunga fila di
località, specialmente di fundi, che
in maggioranza portano senza dubbio nomi antichi. Dunque accanto al Forum si trovava una strada detta vicus patricius che anche in questi
documenti viene menzionata dappertutto insieme col Forum; una vecchia denominazione,
come dimostra l’esistenza di un vicus
Patricius a Roma fra Cispius e Viminale (cfr. Hülsen-Jordan I 3. 339);
supposizioni sull’origine del nome in Fest p. 221. 348. Più difficile è
interpretare la forma oripo: sembra
il fr. oripeau ‘auri pellis’ = “orpello” e potrebbe quindi condurre a una zona di
orafi o, meglio, di ramai, e si potrebbe ricordare la regio VIII argentaria (CIL XI 3821; sopra vol. II pag. 2425) e il
medievale clivus argentarius a Roma
(Hülsen sopra vol. II pag. 706). Tuttavia io preferirei
equiparare oripo con euripus (così già Nibby III 188 seg.),
che è la denominazione d’epoca imperiale (e medievale) di un canale, più volte
attestata per Roma (cfr. Jordan II 64 seg. sopra vol. VI pag. 1284). Fino a che punto le chiese, come p. es. la ecclesia S. Alexandri, abbiano preso il
posto di un antico tempio, non si può naturalmente decidere qui. L’altra
indicazione “aquimalis” sembra
designare un mulino ad acqua e ricordare le molinae
a Roma (Jordan II 226. 345). La forma
antiqua iuxta episcopio è la condotta dell’acqua: è una denominazione
tecnica usata p. es. anche da Frontino (cfr. Jordan II 339). La seconda regione
si chiamava Formello, probabilmente
per la condotta d’acqua. Se con le gradae
relative ad essa si intendano i gradini, non è chiaro; forse è utile accennare
al fatto che nella Roma medievale con gradella
si designava una regione (Jordan II 534). La silice publica è una strada pavimentata con ciottoli, non
attestabile nell’antica Roma, ma già Ammian. Marc. XIV 6, 16. XXVI 3, 5 equipara silices a “strada” ma non nel senso di un nome proprio. Questa
strada portava giù verso la porta maiore
e la porta (o)scura: la porta maior
sarà a Roma (qui per porta Praenestina
e Labicana: Jordan I 1, 357; oggi
ancora Porta Maggiore) una denominazione secondaria: la “grande” porta. Non
possiamo più rintracciare nemmeno il nome per la porta obscura; a Roma non c’era niente di simile. Dall’altra parte
questa regione arriva fino alle mura cittadine compresa una “porticina” (posterula, numerose anche a Roma: Jordan
I 1, 383) e la chiesa di S. Pantaleone col campanile e gradini di marmo (di un
vecchio tempio?). La via publica può
forse essere identica alla via Tiburtina; seguono il “vecchio” muro di S. Paolo
e poi di nuovo le mura cittadine. La terza regione si trovava nella città bassa
e si chiamava Plazzula (= strada
ampia, piazza: Jordan I 1, 523, 49
a?), delimitata dalle mura, da una strada (silice),
che portava alla porticina di ‘Vesta', e dal monastero di S. Benedetto. La
quarta regione era il Castro vetere con le chiese di S. Maria e di S.
Giorgio; da una parte un fossato dove era portata la condotta d’acqua, aqua in Vesta, dalle altre due parti
delimitata dalle mura. Il nome Castro
vetere ha molti significati. Può essere un vecchissimo nome per la fortezza,
come Castrimoenium in territorio
albano, inoltre – cosa che qui non c’entra – il nome di una colonia di
cittadini come p. es. Castrum novum
Etruriae o Castrum novum Piceni;
può anche significare, come spesso a Roma, “caserma”, essere quindi di origine
relativamente tarda; infine si impiegò castra
anche per condutture d’acqua (cfr. Jordan II 64). Ma il nome nella forma Castro vetere è in ogni caso secondario:
esso presuppone già l’esistenza di una costruzione più nuova, come infatti in
altri documenti è spesso tramandato un castellum
novum (Bruzza 135) Nel Forum (oggi
Piazza dell'Olmo) si trovava il tempio di Ercole di cui si è già parlato sopra.
Il pezzo più antico conservatosi è la Cella
di epoca repubblicana, visibile dietro l’abside della cattedrale (Lanciani
Boll. archeol. comun. 1893, 293). – Il complesso architettonico, del quale
facevano parte, come detto, la mensa
ponderaria, il luogo del culto imperiale, il thensaurus e la biblioteca, occupava a forma di terrazza la parte
del colle con la sottostruttura di mura massicce e arcate, e di esso facevano
parte anche i resti della cosiddetta villa di Mecenate: un cortile quadrato
circondato da arcate con un santuario nel mezzo, oggi fabbrica di carta. Un
preciso rilevamento dei resti e una ricostruzione del tempio è una necessità
urgente (cfr. Bormann Altlat. Chorogr. 225 segg. Dessau Ann. d. Inst. LIV 116 segg. Ashby The Roman Campagna in
Classical Times 111 segg. Delbrück
Hellenist. Bauten in Latium II 50 124 seg. Pacifici Journ. rom. stud. X 90 segg. Paribeni
Not. d. scav. 1925, 249 segg. G. H. Hallam Journ. rom. stud. XXI 276
segg., che recensisce anche luoghi del culto d’Ercole sotterranei appena
scoperti a Sette Camini e presso Gabii [Grotta Saponara]). – La piazza davanti
al tempio era una stazione di vetturini (cisiari):
v. CIL VI 9485 = Dess. 7229... collegium
iumentariorum qui est in cisiaris Tiburtinis Herculis; cfr. Mau sopra vol. III pag. 2589. Oggi i due
templi ben conservati sono l’orgoglio di T., il rotondo tempio di ‘Vesta’ e
quello quadrato della ‘Sibilla’: i nomi delle divinità alle quali essi erano in
realtà consacrati, non sono stati rintracciati. Sul tempio rotondo
un’iscrizione di epoca sillana (CIL XIV 3573) nomina come costruttore il
funzionario L. Gellius; anche i reperti indicano l’inizio del I secolo a.C.
Dettagliate descrizioni in Delbrück Hellenist. Bauten in Latium II 11 segg. Da iscrizioni d’epoca imperiale (CIL XIV 4259. 3663 = Dess. 5630. 6234) e dai documenti papali del Medioevo
menzionati sopra (Bruzza 112, 123) è attestabile un anfiteatro; esso esisteva
ancora all’epoca di Pio II. (Friedlaender SG IV9 211). Da documenti sono attestate anche caserme di
gladiatori (ludi) (Bruzza 122). – Che
a T. ci fosse anche un teatro, lo dimostra un’iscrizione secondo la quale un duumvir fece erigere fra l’altro porticum pone scaenam (CIL XIV 3664 = Dess. 5546). – Inoltre c’erano tre teatri
nella Villa Hadriana. – E’ opportuno accennare anche a Boёtius e Car1gren
Die spätrepubl. Warenhäuser in Ferentino und Tivoli: Acta Archaeol. III (1933; a me non accessibili) T. era nota come località di villeggiatura, quasi
tutti i romani importanti avevano le loro ville a T. (cfr. Bourne 34 segg.).
Un’idea della sontuosità di una tale casa ce la dà la descrizione che Stazio fa
della villa di P. Manilius Vopiscus silv. I 3, 1 segg. (cfr. Groag sopra vol.
XIV pag. 1142 seg.) e ancor più la Villa d’Este, che, come membro di
un’ininterrotta tradizione, illustra forse meglio una villa romana piuttosto
che le strane costruzioni di Adriano. Nessuna delle ville è stata identificata
con sicurezza. – Il segreto del Sabinum di Orazio (v. Philipp sopra vol. I A
pag. 1590 segg.) ha dato vita a una bibliografia specifica sterminata, della
quale si devono nominare p. es. Ashby Journ. rom. stud. IV 121 segg., Lugli Mon. Ant. XXXI 1926, 457
segg. (pag. 593 - 598 una bibliografia molto meritoria), Lamer Hum. Gymn. XXXIX
1928, 71 segg., G. H. Hallam Horace at T.² (1927), M. Blake Memoirs of the
Amer. Acad. in Rome VIII 1930, 57 segg., Th. D. Price ivi X 1932 e Dunbabin
Class. Rev. XLVII 1933, 55 segg. Come guida topografica di T. si raccomandano
particolarmente, accanto al bel libro di Ashby The Roman Campagna in Classical
Times 110 segg., per la prima introduzione l’utile guida di G. Bagnani The
Roman Campagna and its Treasures 1929, 226 segg. – in entrambe sono utilizzati
i risultati di V. Pacifici Tivoli nel Medio-Evo 1926. Opere più vecchie
(anche quella di Nibby Analisi storico-topografico-antiquaria della carta de'
dintorni di Roma III [1837] 162 segg.) sono trattate criticamente nella
introduzione di A. Bormann Altlatin. Chorographie (1852); proprio a T. sono
dedicate in Bormann le pagine 222-238. Egualmente breve visione d’insieme su T.
in Dessau ; CIL XIV p. 365 segg. e Nissen It. Ldk. II 611 segg. La monografia,
utile almeno come raccolta di materiali, di Ella Bourne A Study of Tibur,
Baltimore 1916, che si basa strettamente sulla rappresentazione di Dessau, non
tratta problemi topografici. – Le iscrizioni di T., raccolte da Mancini per il
nuovo Corpus ‘Inscriptiones Italiae’, non sono ancora comparse alla conclusione
di questo articolo (maggio 1935). – Allo studio di T. serve la rivista Atti e
memorie della Società Tiburtina, della quale sono già apparsi 12 volumi. [St. Weinstock.] |