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i nomi delle città
Tivoli

Tibur, città del Lazio, oggi Tivoli.

1. L’insolita forma del nome – presso i romani ovunque Tibur – portò negli scrittori greci a innumerevoli variazioni come per esempio Τιβούρ (Tolom. IlI 1, 54), Τίβουρα (Strab. V p. 238), Τίβουρις (Stef. Biz s. v.), Τιβουρίνων πόλις (Polib. VI 14, 8), che tuttavia non hanno alcun valore per la ricerca linguistica. L’etnico è Tiburs da Tiburtis (così ancora Catone frg. 58 P.; sulla vecchia iscrizione del II sec. a.C., CIL XIV 3584 = Dess. 19 Teiburtes), più tardi con il doppio suffisso Tiburtinus (per es. Liv. IX 30, 7. Serv. Aen. IX 358 e altri), il mitico fondatore della città si chiama Tiburnus, più raramente Tiburtus o Tibur (così Serv. Aen. VII 670). Una famiglia originaria di T. si chiama Tiburtius (attestazioni in W. Schulze Eigennamen 533); a Pompei risiedevano i Lorei Tiburtini (trattati monograficamente da Della Corte Atti e memorie della Società Tiburtina XI - XII 1931-1932, 1 segg.). - In epoca imperiale subentrano le forme Trivortinus, Tivortinus, Tivurtinus (Gromat. 406, 15. 250, 7. 320; da cui l’italiano travertino), che sembrano indicare un’etimologia popolare da tres e vertere (cfr. Schuchhardt Vokalismus d. Vulgärlat. I 38. Kel1er Lat. Volksetymol. 24).

Prima di riflettere sul nome, si deve brevemente raccontare la “storia” della sua fondazione. Secondo una versione seguita da Catone (frg. 56 P. = Solin. II 8; dopo questo Marziale Cap. VI 642), fu l’arcade Catillo il fondatore di T., secondo un’altra i tre fratelli Catillo, Coras e Tibur o Tiburto (Serv. Aen. VII 670). Secondo un Sextius a noi ignoto (Solino II 8), questi tre fratelli sono i figli dell’argivo Catillo che venne in Italia dopo la morte di suo padre Anfiarao e qui generò i tre fratelli. La città ricevette il nome dal più vecchio dei tre, dopo che essi avevano cacciato i Sicani dalla città “di Sicilia” (= T.) (depulsis ex oppido Siciliae veteribus Sicanis a nomine Tiburti fratris natu maximi urbem vocaverunt). Invece, come ci riferisce Plinio (n. h. XVI 237), fu Tiburno, figlio di Anfiarao, l’unico fondatore di T. (su di lui cfr. Wissowa Myth. Lex. V 935 e sotto, pag. 835), e anche molto prima della fondazione di Roma (cfr. Porfir. Orazio, carm. I 7, 13). Nella letteratura romana, specialmente nei poeti augustei, T. era ritenuta una fondazione argiva (per es. Orazio, carm. II 6, 5 Tibur Argeo positum colono ...; ulteriori attestazioni in Dessau CIL XIV p. 365, 12 e Ella Bourne A Study of Tibur, Diss. Baltimore 1916, 9 seg.

Di questi racconti possiamo usare assai poco. La fondazione argiva della città è forse da mettere in relazione in parte con la tradizione di Ercole, in parte con l’equiparazione di Giunone, qui molto venerata, con l’argiva Era. Con il ricorso ad Anfiarao è legittimato l’oracolo di Albunea (vedi sotto pag. 833 seg.). Poiché l’indovino Anfiarao aveva non solo famosi oracoli, come per esempio quello presso una sorgente a Oropo (Paus. I 34, 5), ma in tale contesto era ritenuto anche figlio di Apollo (p. es. 10 Hygin. fab. 70, 1; cfr. Deubner De incubatione 55, 1). Questa genealogia è dunque una costruzione puramente italica poiché la tradizione greca non conosce i “figli”. Infatti Coras è l’eponimo della città di Cora nel Lazio, Catillo è da mettere in relazione con l’omonimo monte presso T. Ha invece uno sfondo assolutamente storico il racconto della cacciata dei Siculi. E’ noto che i Siculi, nella loro migrazione verso sud, possedettero un tempo Roma (cfr. p. es. Varr. 1. 1. V 101; Macrob. I 7, 28-30) e il Lazio. (Dion. Hal. II 1, Βάρβαροί τινες ήσαν αύτόχθονεσ Σικελικοί λεγόμενοι πολλά καί άλλα της Ίταλίας χωρία κατασχόντες, ων ούκ όλίγα διέμεινεν… μνημεϊα…έν οϊς καί τόπον τινών όνόματα Σικελικά λεγόμενα…). Questi όνόματα Σικελικά, ai quali Norden Altgermanien 112, 4 si richiama con forza, dobbiamo prenderli seriamente sotto ogni aspetto (cfr. anche il ricco materiale in Conway-Johnson-Whatmough The Prae-Italic Dialects II 431 segg.). Nel nostro caso il passo di Solino sopra citato dimostra che una parte piuttosto grande del Lazio, perlomeno i dintorni di T., si chiamavano Sicilia (Stef. Biz. indica Sinuessa come πόλις Σικελίας), e, ciò che nel nostro contesto è di estrema importanza, un quartiere della città di T. si chiamava più tardi ancora Σικελικόν (Dion. Hal. I 16, 5 …παρ΄ οίς [Τιβουρτίνος] έτι καί είς τόδε χρόνου μέρος τι τής πόλεως όνομάζεται Σικελικόν). Hanno un’ulteriore relazione con questo l’odierna città di Ciciliano, a est di T., e la città degli Irpini Sicilinum. Non si può non menzionare che W. Schulze Eigennamen 551 percorre una via del tutto diversa perché riconduce il Σικελικόν alla gens dei Sicilii (etr. sicle). Se questo fosse giusto, non sarebbe più il caso di parlare di dominio dei Siculi a T., e noi dovremmo incominciare la storia di T. con il dominio delle Gentes etrusche (vedi sotto, pag. 820 seg.). Ma la migrazione dei Siculi è assolutamente attendibile e la loro presenza a e presso T. può forse essere ulteriormente sostenuta, oltre alle argomentazioni già citate. – Dunque un tempo, nella T. più tarda, abitarono i Siculi. Ma poi vennero dalla Grecia i tre mitici fratelli o, un poco meno mitici, (certamente dalla direzione contraria) gli aborigeni, scacciarono i Siculi e da allora chiamarono la città T. (Catone op. cit.)

Perciò diventa attuale la domanda se il nome della città o del fondatore Tiburnus (questa forma è meglio attestata di Tibur o Tiburtus) possa raccontarci altre cose sulle “Origines”. Nulla è più pericoloso di un’interpretazione etimologica affrettata. Un accostamento diretto con Tiberis (Walde². Ribezzo Riv. Indo-Gr.-Ital. XIV 1930, 69. 91) non conviene a causa della differenza di quantità (Tībur, Tĭberis); la loro comune riconduzione al “sabino” (Varr. r. r. III 1, 6 ‘collis’) o meglio preitalico (Norden Altgerm. 107) tēba fallisce per l’oscurità della derivazione. Bisogna dunque tentare di trarre qualche conclusione dalla formazione del nome. Nomi geografici simili ve ne sono solo sporadicamente: innanzittutto la città dei Volsci Anxur (in seguito Tarracina), il fiume in Etruria Ausur, affluente dell’Arno (Rutil. I 566; in Plin. n. h. III 50 Auser), i Gurgures o Burbures montes nelle montagne sabelliche (sopra. vol. VII pag. 1945). Non sappiamo neppure se la somiglianza non sia solo casuale. Anxur p. es. forma l’etnico con il suffisso etrusco-latino -as (su questo da ultimo Norden Altgerm. 100 segg.) Anxurnates, mentre a Tiburs si adatterebbero meglio di tutto i Camertes, abitanti della città umbra di Camerinum. Con questo materiale non si potrebbe dunque arrivare a nulla, ma un aiuto fondamentale ce lo offre Tiburnus, per il quale i parallelismi sono più numerosi e, in parte, tali per cui si possono trarre ulteriori conclusioni: Falernus, Alburnus, Liburnus, Privernum, Taburnus, Viberna, Salernum, Tifernum, Lavernalis. Certo, anche questa lista non sembra essere del tutto omogenea. Cadute in anticipo sono le numerose formazioni col suffisso etrusco tr + n (W. Schu1ze Eigennamen 337), come Voltur, Volturnus ecc., poiché le formazioni Tibur e Tiburnus si riferiscono ancora a un’epoca preetrusca. Tuttavia è indubitabile che nella presente lista possono esserne comprese alcune come formazioni etrusche in rn (o solo come  formazioni analoghe). In altre, invece, le forme - basi perdute possono liberare Tibur dal suo isolamento. A fare un passo avanti ci aiuta Tifernum. Vi sono tre città che hanno questo nome con ognuna un Tifernus mons e fluvius. Il fiume Tifernus può (W. Schulze 540) essere identico all’amnis Tiberinus, come pure una delle città nominate ha l’appellativo Tiberinum. Questa sarebbe una formazione analoga vicinissima (l’analogia sarebbe ancora più completa se potessimo fidarci della forma Tiber in Fronto p. 160 Nab.; certamente non si può mai essere abbastanza prudenti in equazioni che portano a Tiberis, vedi E. Fraenkel sopra vol. XVI pag. 1656). Ma l’equiparazione non è possibile, come detto, per la differenza di quantità. A una conclusione più decisiva ma anche molto più ardita ci porta Liburnus. I Liburni sono gli abitanti “illirici” del Picenum (Norden Altgerm. 226 segg.; per il nostro nesso è particolarmente importante Plin. n. h. IlI 112 Siculi et Liburni plurima eius tractus tenuere ...); Λίβυρνον όρος è una montagna nel Sannio settentrionale (Polib. IlI 100, 2), paragonato a ragione col già menzionato mons Tifernus (Liv. X 30, 7; oggi Montagna del Matese), così che Nissen It. Ldk. II 786, 2 vorrebbe scrivere Τίβυρνον (approva Philipp sopra vol. XIII pag. 146). Tuttavia si deve riflettere se qui non vi sia un ulteriore esempio del mutamento, scoperto da Kretschmer Glotta XIX 279 segg., fra t e l iniziali. Se questo mutamento dovesse trovare conferma, risulterebbe più chiara la provenienza del nome Tibur. Ciònonostante T. non diventerebbe una città “liburnica” poiché anche qui è d’ostacolo la differenza di quantità (Tībur : Lĭburnus) ma la si potrebbe ritenere, pur con la massima riserva, una formazione illirica e ammettere che questi “Illirici” nella loro migrazione verso sud diedero un nome alla città, così come i Siculi a una parte di essa: Σικελικόν. Oppure, se noi equipariamo questi Siculi per metà mitici con gli Illirici (v. Wi1amowitz Glaube d. Hellenen II 4, 2), arricchiremmo non solo il patrimonio di nomi illirici del territorio sabino, ma con il Σικελικόν avremmo in Dionigi di Alicarnasso anche un garante del dominio e dell’eponimia illirica a T.

II. 1. Stranamente, la ricerca storica trova a T. solo pochissimo sostegno dai ritrovamenti archeologici. Dobbiamo prescindere dalla tomba non databile, arredata “alla maniera etrusca” (v. Duhn Ital. Gräberk. I 517. Schachermeyr Etr. Frühgeschichte 204); rimangono così solo i ritrovamenti dell’anno 1926, che Antonielli Not. d. scav. 1926, 210 segg. ha descritto dettagliatamente. Si tratta di numerose sepolture al di sotto della piccola Cascatelle, secondo v. Duhn Vorgesch. Jahrb. IlI 298 testimonianze di un insediamento sabino, come se ne trovano in gran numero a Praeneste e come ci si doveva aspettare a T. per la sua posizione. Ma secoli dividono i Siculi sopra descritti dai Sabini e noi non siamo purtroppo più (o non ancora) in grado di riempire questo spazio temporale. – Qui di seguito si possono fornire solo alcune disiecta membra che non danno un quadro unitario ma possono diventare più complete col tempo. Antonielli Not. d. scav. 1927, 215 segg. ha controllato una tomba conosciuta già da lungo tempo e l’ha riferita, con l’approvazione di v. Duhn Vorgesch. Jahrb. IV 309 (cfr. anche Kaschnitz-Weinberg Arch. Anz. XLII 1927, 114) a una divinità d’acqua femminile, probabilmente Albunea (vedi. sotto). – Il nome del sacerdote d’Ercole a T., cupencus, è stato ultimamente trattato spesso senza che si sia giunti a un risultato definitivo. (Serv. Aen. XII 538f. Sane sciendum cupencum Sabinorum lingua sacerdotem vocari ... sunt autem cupenci Herculis sacerdotes ...). Dovremo rimanere all’indicazione Sabinorum lingua, poiché il tentativo di Cortsen (Die etruskischen Standes- und Beamtentitel 1925, 128), di collegare il cupencus con l’etrusco cepen ‘sacerdote’ (su questo vedi Leifer Studien z. antiken Ämterwesen I 282) incontra difficoltà (cfr. Sittig Gnomon VII 36), e anche l’interpretazione di Danielsson (Glotta XVI 88, 2) ‘coppiere’ (per cūpa) è respinta con ragione da J. B. Hofmann (in Wa1de³ sub. voce) (l’etrusco kusenkuś è ricordato da Kretschmer in Runes Glotta XXIII 274, 3). - v. Duhn Vorgesch. Jahrb. IlI 299 dice sabina l’iscrizione arcaica trovata a T. nell’anno 1926 e qui riprodotta secondo la lettura dell’editore Mancini Not. d. scav. 1926, 215 segg.: [m]ed mitat capillor viged ni sfeti sd. I tentativi di lettura e interpretazione di Comparetti (Rend. Linc. 1926, 268 segg.), Ribezzo (Riv. Indo - Gr.- Ital. 1926, 185 segg.), Ceci (Rend. Linc. 1926, 448 segg.) e Pagliaro (Atene e Roma XXXVI 1934, 165 5) sono purtroppo molto azzardati. Lommatzsch, che nei supplementi del CIL I² 2658 pubblica l’iscrizione con la fotografia di Mancini nella forma seguente: . ed mitat kapi \ . or vipe d \ n..\ ni. sφeti. sd, è dubbioso sulla possibilità di una spiegazione e crede che abbiamo davanti a noi un testo etrusco. Anche se il testo ci rimane di primo acchito incomprensibile, non si deve condividere lo scetticismo di Lommatzsch per quel mitat, che compare anche sull’iscrizione di Duenos (non è un caso!). – Anche se l’iscrizione può risalire al IV secolo a.C., la sua lingua è naturalmente più antica; se sia “sabino” e impossibile dirlo. - Infine si deve anche fare cenno della singolare formazione Anio, Anienis (K. Meister Lat.- gr. Eigennamen I 1 segg.) e del fatto che le sue cascate si chiamano tullii Tiburtes (Plin. n. h. XVII 120. Fest. p. 352 Tullios alii dixerunt esse silanos, ali rivos, alii vehementes proiectiones sanguinis arcuatim fluentis quales sunt Tiburi in Aniene . . .; cfr. Sigwart Glotta VIII 141. Carpentier Glotta IX 51 seg.).

2. Non c’è una tradizione né storica né archeologica che T. sia mai stata possedimento etrusco. Tuttavia gli innumerevoli cognomi d’origine etrusca parlano una lingua chiara. I nomi singoli non hanno certo alcuna forza probativa, poiché sono senz’altro possibili da un lato migrazioni di famiglie, dall’altro successivi cambiamenti di nome secondo il modello etrusco, per non parlare poi della ben nota ambiguità dei nomi propri italici. Ma dei Coponii (v. Münzer, sopra vol. IV pag. 1216) possiamo segnalare a T. cinque membri, il più vecchio d’epoca sillana (Cic. Balb 53. CIL XIV 3540. VI 34000. XIV 3538. 3740). Anche i Cossinii (Münzer sopra vol. IV pag. 1671) furono per secoli residenti a T: infatti al L. Cossinius Tiburs menzionato in Cicerone (Balb. 53) e appartenente all’epoca sillana si devono da poco aggiungere – a prescindere da CIL XIV 3755 – una vestale Cossinia e un L. Cossinius Electus di un’iscrizione funeraria del III secolo d.C (cfr. Hallam Journ. rom. stud. XX 14 seg.). Se entrambe le famiglie sono molte volte attestabili anche altrove, (cfr. Thes 1. 1. Onom. II 587. 667), si deve tuttavia prendere assolutamente in considerazione il loro diretto trasferimento dall’Etruria (W. Schulze Eigennamen 276, 3. 158 seg.). Se osserviamo le più antiche testimonianze delle nostre iscrizioni, le due iscrizioni questorie (CIL XIV 3655. 3686; v. sotto pag. 826) mostrano nomi come C. Caesilius (v. anche  M. Caesilius: 3736), C. Heiulius, M. Turpilius, M.’ Popilius, che potrebbero essere senza eccezione di origine etrusca. (W. Schu1ze 135. 459. 246. 216 443). Vecchio è anche C. Placentios (CIL XIV 3563. W. Schulze 52. 291, 5); dal loro aver rivestito la carica di edile si può desumere una certa epoca per C. Aufestius (3538. 3710. W. Schulze 348) e per C. Munatius (3678. W. Schulze 362). Una stimata famiglia sembrano essere stati i Sabidii (CIL XIV 3674. 3699. 3704 segg.), che egualmente non erano d’origine latina (W. Schulze 222). Devono inoltre essere citati C. Nunnuleius (3546. W. Schulze 453), la cui formazione nominale ricorda il succitato C. Heiulius, L. Graecius Numitorius (3628), C. Fuficius (3771), M. Lactidius (Eph. ep. IX 905- 907),   M. Varenus (CIL XIV 3687), L. Maecius Donatus (Eph. ep. IX 917), C. Volcacius Artemidorus (Eph. ep. IX 921) e altri, per i quali si possono facilmente trovare i parallelismi etruschi in W. Schu1ze. Questa è soltanto una prima piccola selezione; in essa qualcosa può essere non certo, o ammettere un’altra interpretazione, ma nella loro totalità questi nomi attestano il predominio degli etruschi nel territorio di T. – più d’uno dei nomi citati compare anche a Praeneste – in un’epoca della quale non possediamo più alcuna notizia. Non si può certo dimenticare che si devono registrare anche nomi latini o italici come per es. i Plautii, i Rubellii Blandi (CIL XIV 3555f. 3576), che a Roma sono giunti ad alte cariche (v. Nagl sopra vol. I A pag. 1158 seg.), forse anche la famiglia di M. Octavìus Herennius (v. E. Fraenkel sopra vol. XVI pag. 1653; diversamente W. Schulze 174), che ha scritto de sacris saliaribus Tiburtium (Macrob. II 12, 17), accanto al quale sono da mettere non solo il mitico antenato, fondatore del culto e pifferaio M. Octavius Herennius (Macrob. III 6. 11. Serv. Aen. VIII 363), ma anche gli Herennii (CIL XIV 3660) effettivamente dimostrabili a T. Non sicuri sono i Potitii e i Pinarii: forse appartengono al gruppo etrusco (W.  Schulze 216. 366. 416).                      

3. T. era, come tutte le oppida italiche (cfr. Kornemann Klio V 84 segg.), punto centrale di un territorio sovrano. Fortificato a mo’ di rocca in posizione elevata, in tempi pericolosi poteva offrire agli abitanti dei vici nella pianura rifugio e protezione. Ma per sua natura gli erano date anche altre possibilità: poteva organizzare e dominare il traffico fra i monti degli Equi (e il loro retroterra) e la fertile pianura (testimonianze per es. in Nissen II 613, 1). Be1och RG 178 valuta l’estensione del territorio a 351 km² (De Sanctis Storia dei Romani I 387, 3 su 500 km²) e indica sulla carta I i confini approssimativi. Solo Roma era più grande, anche Praeneste e Ardea sono di gran lunga dietro a T. Naturalmente, nel corso del tempo, il territorio era sottoposto a oscillazioni. Ma poiché su queste oscillazioni non sappiamo nulla, (fino alla conquista di Roma), devono a questo punto essere conteggiate tutte le località che furono messe in conto a T. o delle quali si può desumere l’appartenenza a T. A oriente, Varia (dalla quale proviene un’ iscrizione con la tribus tiburtina Camilla: CIL XIV 3472) Empulum (Liv. VII 18. 2), Sassula (Liv. VII 19,1), a sud Aefula (Ashby Papers III 132 seg.), Querquetulum (Rosenberg Herm. LIV 136), occasionalmente anche Pedum (Liv VIII 13, 4 segg. Rosenberg 135), a occidente Aquae Albulae (CIL XIV 3534 Beloch RG 176) e la regione dove poi fu costruita la villa Adriana (Beloch 178). Naturalmente i confini non sono chiari nel dettaglio, soprattutto verso Gabii, Praeneste e anche verso Pedum, finché questa città fu indipendente.

Nel periodo più antico, a T. avranno regnato dei re, come ovunque nel Lazio (v. Gelzer sopra vol. XII p. 944); testimonianze dirette non ne abbiamo, a meno che non vogliamo vedere il ‘primo’ re in Tiburnus, il ‘fondatore’ della città. A T., all’incirca nel VI secolo a.C., il dictator, in qualità di ordinario funzionario annuale, sarà subentrato al re, come possiamo di nuovo dedurre da analoghe condizioni nelle altre città latine; come ulteriore testimonianza, sebbene egualmente indiretta, può essere citato il fatto che alla testa della lega latina, di cui anche T. faceva parte, (v. sotto pag. 823), c’era un Dictator. E’ possibile che T. prima o poi, forse sotto l’influsso  romano, sia passata a una doppia burocrazia. La costituzione dei due pretori (cfr. Beloch Ital. Bund 170. Kornemann Klio XIV 200 segg. Ge1zer sopra vol. XII pag. 945), che per esempio è tramandata espressamente a Praeneste, fu desunta da Rosenberg Rh. Mus. LXXI 125 per T. dagli appellativi sacrali, dalla Fortuna Praetoria (CIL XIV 3540 = Dess. 6243: solo a T., v. W. F. Otto sopra vol. VII pag. 35) e dagli di Praetorii (CIL XIV 3554 = Dess. 3415), se sono le stesse divinità, la cui assistenza i pretori di T. richiesero per governare la comunità.

La comunità, la res publica di T. (così chiamata già sulla vecchia iscrizione della metà del II secolo a.C., CIL XIV 3584 = Dess. 19 ... rei poplicae vostrae ...; altrimenti documentabile solo dall’epoca romana, ma certo secondo un vecchio modello res publica Tiburtium: Dess. 1071. 6228; cfr. la res publica Laurentium Lavinatium: Wissowa Herm. L 32), aveva la sua rappresentanza politica nel consiglio comunale e nell’assemblea sovrana dei cittadini, oppure, espressa secondo il modello romano, nel senatus populusque Tiburs; la stessa formulazione si trova anche a Lanuvium, Lavinium, Praeneste, Cora e Signia (vedi Ge1zer 945; cfr. anche la visione d’insieme in Dessau Inscr. lat. sel. IlI p. 674), ma – eccetto Roma – in nessun luogo così frequente come a T. Le decisioni del senatus Tiburtium (Dess. 1889) – i membri si chiamavano decuriones Tiburtes (CIL XIV 4250 seg. 3586. 3599) – venivano formulate, come in molte altre città, de senatu sententia o senatus consulto (cfr. Dessau III p. 675).

4. Un piccolo cantone poteva fare al meglio una ‘grande’ politica solo con altri affini per stirpe. Non è un caso che la storia più antica di T. a noi accessibile sia nello stesso tempo la storia della lega latina. Con una formulazione per metà mitica ciò significa che T. fu fondata sotto Latinus Silvius, il ‘quarto re’ di Alba Longa (Orig. gent. Romae 17, 6 ... regnante Latino Silvio coloniae deductae sunt Praeneste, Tibur, Gabii, Tusculum, Cora, Pometia, Labici, Crustumium, Cameria, Bovillae ceteraque oppida circumquaque; anche senza le ultime parole sapremmo che questa lista è incompleta poiché Diodoro [VII 5, 9] conta 18 città). Anche se il nome del re può essere non storico (Schur sopra vol. XII pag. 939), per noi sono più importanti l’indipendenza di Alba Longa da un lato e l’unione con le città latine dall’altro. La posizione di predominio di Alba Longa è mantenuta in seguito ancora in forma sacrale nei santuari di Giove Laziare e di Diana di Ariccia. Non sappiamo se la federazione fosse rivolta fin dall’inizio contro Roma. Ma è significativo che Virgilio chiami Tibur superbum fra le città latine che insieme a Turno combatterono contro Enea (Aen. VII 630). Si possono registrare anche singole persone, come i tre fratelli Tiburtus, Coras e Catillus (670 segg.), Venulus (VIII 9. XI 741 segg.) e Remulus: se dietro gli ultimi due nomi vi sia un nocciolo storico, non è stato ancora appurato.

Grande valore storico possiede la documentazione sacrale, conservatasi in Catone, della consacrazione del bosco a Diana aricina, che Rosenberg (Herm. LIV 144) colloca nella seconda metà del VI secolo e Gelzer 953 nel periodo dopo il 507, Catone frg. 58 P. in Prisc. IV 129 H.: lucum Dianium in nemore Aricino Egerius Baebius Tusculanus dedicavit dictator Latinus. hi populi communiter: Tusculanus, Aricinus, Lanuvinus, Laurens, Coranus, Tiburtis, Pometinus, Ardeatis, Rutulus. La composizione della lega risulta dal fatto che Roma non è presente fra gli stati federati e che, come ha già osservato Rosenberg, il territorio federale, che comprende metà della superficie del Lazio, circondava Roma circolarmente. Come Roma potesse resistere a questa stretta di cui era partecipe anche T. sotto la guida di Tusculum, non lo sappiamo. In ogni caso, la situazione nella prima guerra tramandataci (che Ge1zer 954 a ragione ritiene storica, cfr. anche Ed. Meyer Kl. Schr. II 298 segg.) è la stessa. Tutte le città latine erano alleate contro Roma, e anche qui Tusculum aveva il comando (Flor. I 11,1 Omne Latium Mamilio Tusculano duce. Liv. II 19,4. 21,3. Dion. Hal. VI 2; sulla posizione di comando di Tusculum cfr. Altheim Griech. Götter im alten Rom 132). La guerra terminò con la vittoria dei romani sul lago Regillo nell’anno 499 o 496. Il foedus Cassianum - il primo trattato a noi noto fra Roma e le città latine - risalirebbe allora, corrispondentemente alla tradizione, all’anno 493. Dal testo della federazione, nel migliore dei casi incompleto, in Dion. Hal. VI 95 si può desumere che, oltre alla federazione, si determinò anche il commercium e la divisione della preda di guerra. Il trattato deve senza dubbio aver contenuto disposizioni di ampia portata quanto al diritto statale e privato, perché ancora intorno al 100 a.C. dei cittadini di T. e di Praeneste vennero trattati seguendo le sue delibere (Cic. Balb. 53).

Anche l’ulteriore storia del V secolo è riconoscibile solo a grandi linee. Esso sarà sicuramente stato dominato dall’ampliamento della supremazia di Roma attraverso la federazione con gli Ernici, dall’accoglimento di Tusculum nella federazione statale romana, dalla fondazione di colonie (Ardea, Signia, Circei ecc.) e altro. Già dal 451 Roma deteneva la guida della festa latina (Ge1zer 957). E’ indubbio che tali misure servivano a una coercizione tesa all’espansione e che le altre città latine si sentivano minacciate e dovettero difendersi. – Un’altra possibilità di indebolire le città nemiche era la chiamata a Roma di potenti famiglie. Questo accadde, come già Münzer Adelsparteien 44 seg. suppone, con la Gens Plautia, domiciliata a T. (CIL XIV 3605 - 3608 = Dess. 921. 964. 986) e a Praeneste. In questo contesto si può forse menzionare anche il trasferimento da T. a Roma dei Potitii e dei Pinarii. Per quanto ne sappiamo, essi non hanno mai avuto a Roma un ruolo politico importante – i Potitii si estinsero presto, come è noto -, ma portarono a Roma il culto di Ercole (v. sotto pag. 830 seg.), che a Roma era rimasto il loro culto gentilizio fino all’anno 311.

Le città avranno anche fatto guerre tra loro e contro nemici esterni. Se può essere anche solo un collegamento eziologico che la danza dei Salii sia stata introdotta a T. post victoriam Tiburtinorum de Volscis (Serv. Aen. VIII 285), il fatto della vittoriosa lotta dei T. (purtroppo non databile) può tuttavia avere assoluta valenza storica. - Anche il grande possesso di terre di cui si è già parlato sopra, T. lo avrà conquistato poco a poco. Alcune delle località nominate, come bene ha osservato Ashby Papers of the British School at Rome III 1905, 132 seg., erano fortificate a protezione di T. Con l’ausilio di un’iscrizione trovata a Monte S. Angelo in Arcese (CIL XIV 3530) gli riuscì di identificare questo luogo con l’arx Aefulana (Liv. XXVI 9, 9). A nord, partendo da T., una strada portava al fortificato Colle Turrita (Ashby 172), a sud verso Monte S. Angelo. Inoltre, secondo Ashby, appartenevano alla cerchia delle fortificazioni anche Varia, Empiglione e Ciciliano. All’interno di questa cerchia, mura e porte (Liv. VII 9, 2) servivano naturalmente alla sicurezza della città. – Qui si possono menzionare anche gli scomparsi Sanates. Nella glossa mutila, Fest. p. 321 sub voce, T. è nominata tre volte. Perciò è assolutamente pensabile una stretta relazione di questa popolazione con T.; sono invece indimostrabili le ampie conclusioni di Rosenberg (Herm. LIV 132; d’accordo Philipp sopra vol. XIV pag. 986), che Sanates sia un vecchio nome del cantone per cui il populus di T. in epoca antica si sarebbe chiamato Sanates Tiburtes.

La catastrofe gallica (390) sembra avere indotto all’attività anche le città latine, soprattutto Praeneste e T. (Flor. I 11, 7). Ma Praeneste p. es. fu presto vinta (382). A queste battaglie, come anche a quelle dei decenni successivi, T. non partecipò poiché, quando si venne a guerra nell’anno 361, si fece riferimento a vecchie controversie (Liv. VII 9, 2 ...cum multae ante querimoniae ultro citroque iactatae essent ...). In quest’anno ritornarono i romani dopo la conquista della città degli Ernici Ferentinum. Allora i T. chiusero loro le porte in faccia. Questa fu la causa diretta della guerra. Che i T. fossero alleati dei Galli lo dimostrano gli avvenimenti della guerra. Infatti in questo periodo i Galli subirono una sconfitta, si rifugiarono nel territorio tiburtino e, appoggiati dai T., si recarono in Campania (Liv. VII 11, 1). In seguito a ciò il console C. Poetelius Balbus marciò l’anno successivo (360) contro T. Ma i Galli fecero ritorno dalla Campania e devastarono insieme ai Tiburtini l’ager Labicanus, Tusculanus e Albanus. Battuti davanti a Roma, i Galli, contro i quali combattè un dictator, si ritirarono verso T. (sicut arcem belli). I Tiburtini vollero accorrere in loro aiuto ma furono spinti, insieme ai Galli, verso T. dal console che si manteneva nelle vicinanze della città. C. Poetelius Balbus ottenne in seguito un doppio trionfo de Gallis Tiburtibusque (annotato anche nei Fasti triumphales CIL I² p. 170). I Tiburtini risero di questo trionfo e spiegarono di non essere stati battuti in nessun luogo (Liv. VII 11). Una volta, nell’anno seguente, marciarono di notte verso Roma. Dopo il primo scompiglio i romani si accorsero che erano solo i Tiburtini e li cacciarono via facilmente (VII 12, 1 - 4). – Nell’anno 356 il console M. Popilius Laena portò guerra ai Tiburtini, li scacciò senza fatica e devastò le loro campagne (VII 12, 1-2). Nell’anno 354 i romani conquistarono dai Tiburtini Empulum (VII 18, 2) e nel 353 Sassula. Pertanto i Tiburtini si arresero (cfr. Pap. Oxy. I nr. 12 Col I 5 Τιβουρτενοι υπό ̀Рωμαίων καταπολεμηθέντες έαυτούς παρέδοςαν) e il console ottenne un trionfo de Tiburtibus (VII 19, 1).                

Questa tradizione annalistica è certamente molto denigrata, ma questa volta essa fa chiaramente riconoscere il piano dei romani di logorare e isolare T. Al logoramento servirono le ripetute campagne belliche, all’isolamento la conquista degli oppida appartenenti a T. – Anche le altre guerre servirono allo stesso scopo. All’ultima grande insurrezione delle città latine (340) T. avrà forse partecipato; le città furono sconfitte l’una dopo l’altra. Si giunse così all’attacco di Pedum nell’anno 339, fra i cui federati T. viene espressamente nominata. Che tra i protettori di Pedum compaiano fra gli altri T. e Praeneste si spiega con il fatto che la conquista di Pedum dovette significare una grave perdita proprio per queste città. Nel primo anno i romani non conseguirono alcun successo ma nel 338 conquistarono finalmente Pedum e per questo T. venne divisa da Praeneste (Liv. VIII 13, 4; cfr. Oxy. Pap. I nr. 12 Col. II 25 segg. III 7 seg.); i Tiburtini perdettero inoltre una parte della loro campagna (agro multati), presumibilmente non a causa delle ultime guerre ma per la passata alleanza con i Galli (VIII 13,8. 14, 9). Altre misure di Roma furono desunte da Rosenberg Hem. LIV 125 segg. dalla lista della lega latina conservata in Plin. n. h. IlI 69. Su questa lista compaiono gli Efulani fra i populi indipendenti; poichè Ashby è riuscito, come si è detto sopra, a determinare la posizione di Efula entro l’anello fortificato di T., la città può essere stata staccata da T. solo ad opera di Roma (Bucciarelli Rend. Linc. 1912, 125. Rosenberg 135). Allo stesso modo si deve intendere la menzione di Querquetulum sulla lista, se si deve identificarla con l’odierna Corcollo a sud di T. (Rosenberg 136).

L’insurrezione delle città latine terminò con la vittoria dei romani. In seguito a ciò non vi fu più una politica autonoma (Ge1zer 963), sebbene Praeneste e anche altre città mantenessero la loro autonomia. Ma quasi l’intero Lazio apparteneva alla federazione romana così che un’impresa bellica sarebbe stata senza speranza fin dall’inizio.  

Da ora in poi si devono riportare solo eventi di poca importanza. E’ dubbio se la marcia verso T. dei tibicines romani nell’anno 311 a.C. sia stato più di un aneddoto. I nostri garanti riferiscono che i Tiburtini li costrinsero, su desiderio dei romani, a ritornare a Roma (Liv. IX 30, 5 segg. Val. Max. II 5, 4). Poiché T. era sempre ‘estero’, la città poté essere scelta come soggiorno dagli esiliati (Polib. VI 14, 8. Liv. XLIII 2,10. Ovid. Ex Ponto I 3, 82… exulibus tellus ultima Tibur erat... Be1och Ital. Bund 215. 221. Dessau CIL XIV p. 365. Rosenberg Rh. Mus. LXXI 126). – All’inizio della seconda guerra punica (217) T. fu luogo di raccolta delle truppe romane (Liv. XXII 12, 1); dopo la guerra Siface, re dei Massesili morì a T., dove i romani lo avevano portato (Liv. XXX 45, 4; cfr. Val. Max. V 1, 1). – All’incirca verso la metà del II secolo a.C. pare vi siano state serie differenze d’opinione fra Roma e T. Una legazione di T. si recò a Roma e le riuscì di appianare la questione davanti al senato. Di che cosa si trattasse in quell’occasione, non lo sappiamo; il senatus consultum è perduto, conservata è solo la ‘lettera’ del pretore L. Cornelio ai Teiburtes, che questi fecero scolpire nel metallo e collocare nel loro foro (CIL I² 586 = XIV 3584 = Dess. 19). – Pur potendo T. restare indipendente, chi voleva arrivare ad avere influenza politica andava a Roma e acquistava la cittadinanza romana; è un caso che noi siamo informati della naturalizzazione dei Coponii e Cossonii (Cic. Balb. 53; v. sopra pag. 820). L’incorporamento di T. avvenne dopo la guerra dei confederati; sappiamo per caso che T. partecipò alla rivolta di Cinna nell’anno 87 a.C. (Münzer sopra vol. IV p. 1283 seg.) (Appian. bell. civ. I 65). Mancano i particolari; solo le testimonianze scritte sui municipes Tiburtes e sulla magistratura municipale della città mostrano che a T. era stata tolta anche l’apparente indipendenza.

III. Dei magistrati della T. indipendente si è già detto sopra. Quando T. divenne municipium romano dopo la guerra dei confederati, i pretori saranno stati sostituiti dai quattuorviri, che all’occasione vengono differenziati dall’aggiunta iure dicundo o aedilicia potestate (cfr. Dessau CIL XIV p. 366). Due iscrizioni poste dai quaestores (CIL XIV 3655. 3686 = Dess. 5577) risalgono forse, secondo la supposizione di Dessau (d’accordo Bourne 42), all’epoca anteriore alle guerre dei confederati. Si sono conservate antichissime tracce anche dell’ufficio del censore (CIL XIV 3685 = I  1120 = Dess. 6229. XIV 3541 = I 1113). Poiché questo incarico è dimostrabile nel Lazio solo in un territorio ristretto intorno a T., Praeneste e Treba, ma non p. es. a Tusculum, Aricia e Nomentum, Rosenberg Rh. Mus. LXXI 124 seg. suppone molto arditamente che il censore in queste città fosse autoctono e che Roma lo abbia preso in prestito forse nel V secolo a.C. da T. o da Praeneste. Stranamente, questo titolo era sottoposto nel periodo romano a delle oscillazioni: a T. il censore si chiamava quinquennalis (Dessau CIL XIV p. 367), a Tusculum aedilis lustralis (Leuze Herm, XLIX 112 segg. Latte Gött. Nachr. 1934, 74 segg.). – Del consiglio comunale e dell’assemblea dei cittadini (senatus populusque Tiburs) si è già parlato sopra.

Fra le altre cariche di T. merita particolare interesse lo strano ufficio del curator fani Herculis Victoris (CIL XIV 3544. 3599. 3601. 3609. 3673 seg. 3689. 4242. 4258 = Dess. 3416. 1061. 1101. 1104. 1889. 1044. 6233). E’ una carica sacra (Rosenberg Herm. XLIX 271) o profana (Lafaye Revue de l’hist. de religions XVIII 86. Wissowa Herm. L 17,2)? Il paragone di Rosenberg con l’aedilis lustralis di Tusculum non è convincente perché Leuze loc. cit. ha dimostrato contro l’opinione di Rosenberg, probabilmente a ragione, che questa carica è profana. Anche formulazioni analoghe portano alla sfera profana. L’altra analogia del curator tempuli [Iovis Dolicheni] dell’Aventino (CIL 406 - Dess. 4316) deve rimanere da parte poiché l’iscrizione è solo del III sec. d.C. e l’istituzione non sarà stata molto più vecchia. Un’importanza maggiore si deve attribuire al curator aput Iovem statorem (di Alba Fucens: CIL IX 3925 = Dess. 6536) e al magister fani Dianae di Capua (CIL X 3918. 3924 = Dess. 6304 seg.). Ma queste iscrizioni hanno un semplice valore di testimonianza e non ci aiutano nell’interpretazione. Diverso discorso per le iscrizioni che mostrano il curator in una forma più generale ed ampia. Su parecchie iscrizioni di T. compare la carica di curator operum publicorum et aedium sacrarum (C1L XIVI 3593 3599. Ephem. epigr. IX 897 = Dess 1185. 1061. 9010), che è dimostrabile però anche in altre città, come nella lontana Stuhlweissenburg (Pannonia), Ephem. epigr. IV 425 (Dess. 1062, dove però compare solo il curator aedium sacrarum, ma lo stesso uomo era anche, come fa notare Dessau, secondo la testimonianza di un’altra iscrizione CIL VI 1008, curator operum publicorum) a Praeneste, CIL XIV 2922 (= Dess. 1420) e recentemente a Lavinium (Rev. arch. 1934. 241). Non è necessario ammucchiare altri esempi, facilmente accessibili con l’ausilio della raccolta di Dessau. Le iscrizioni riportate sono sufficienti a dimostrare che, come gli altri curatores dovevano sorvegliare lo stato edilizio delle costruzioni profane e sacre, anche il curator fani Herculis Victoris non amministrava un ufficio sacro ma controllava, nello specifico, le estese costruzioni del tempio di Ercole (v. sotto).

IV. 1. Dei culti locali di T. si deve nominare prima di tutti il culto di Ercole (Strab. V p. 238 Τίβουρα…έν η τό ΉράκλειονMarziale. IV 62, 1 Herculeum Tibur; cfr. I 12, 1. IV 57, 9. VII 13, 3. Properzio II 32, 5. Schol. Iuven XIV 90 Boehm sopra vol. VIII pag. 582 segg.; per me non accessibile G. H. Ha1lam Cenni sul culto di Ercole Vincitore in Tivoli e dintorni: Atti e memorie Società Tiburtina XI/XII 1931/32 394-400), che porta l’appellativo Victor sulla maggior parte delle iscrizioni (CIL VI 3544. XIV 3541. 3546. 3554f. 3601. 3609. 3612. 3673f. 3689. 4258 = Dess.   3416. 3412. 3401. 3414 seg. 1101. 1025. 1882. 1889. 6233; inoltre CIL XIV 3553 = Dess. 3418 H. V. Certencinus. 3545. 3548 = Dess. 2642. 2706 Hercules Invictus. 3542 = Dess. 3442 H. Domesticus. 3543 = Dess. 3452 H. Saxanus).

La leggenda della fondazione del tempio ce la racconta Microbio IlI 6, 11 dal secondo libro dei Memorabilia di Masurio Sabino: M. Octavius Herennus (così Münzer sopra vol. VIII pag. 662) o Herennius fu originariamente tibicen, in seguito commerciante. Egli consacrò la decima dei suoi guadagni a Ercole. Assalito dai pirati durante un viaggio per mare, si difese con forza e vinse (victor recessit). Ercole gli fece sapere in sogno che aveva combattuto per lui (sua opera servatum). In seguito a ciò Ottavio eresse una aedes e un signum, ...Victoremque incisis litteris appellavit (da Wissowa Ges. Abh. 260. Boehm 558 non da riferire alla Aedes presso l’Ara Maxima, ma al tempio a T.). Sembra che questo Masurio Sabino attinga le sue conoscenze dall’opera di Octavius Herennius de sacris saliaribus Tiburtium, in quo Salios Herculi institutos operari diebus certis et auspicato docet (Macrobio IlI 12, 7). La leggenda riceve il suo giusto senso solo se indaghiamo sulla relazione del pifferaio e commerciante Octavius Herennius con lo scrittore Octavius Herennius. Non si può parlare di identità (così Lugli Bollettino dell'Associazione archeol. Romana V 1915, 121 seg.): il primo è uno scrittore attestato da documenti, l’altro un fondatore di culto di mitici tempi remoti. Ma lo scrittore Octavius Herennius può aver fatta propria una leggenda familiare o averla inventata egli stesso, nella quale rivendicava la gloria della fondazione cultuale per la propria famiglia (due membri della famiglia, T. Herennius, padre e figlio - quest’ultimo IIIvir iur. dic. a T. -  CIL XIV 3660). Una storia di fondazione simile sembrano aver messo in circolazione a Roma i Pinarii (forse anche i Potitii) (v. sotto), che hanno entrambe una somiglianza di principio con la storia di fondazione di Valerius Antias, che fece portare a Roma dal suo leggendario antenato Valesius il culto del Dis pater e di Proserpina (Val. Max. II 4, 5). Con questa leggenda dal valore storico più che dubbio (ma purtroppo non controllabile), sono di colpo spiegate eziologicamente due cose così diverse come l’appellativo Victor e la creazione della decuma. E’ più probabile che Ercole abbia ricevuto l’appellativo Victor poiché aiutò in guerra i Tiburtini; a questo si accorda il fatto che i salii a T. rappresentassero la danza delle armi al servizio di Ercole in ricordo della vittoria che avevano ottenuto sui Volscii (Serv. Aen. VIII 285). In tal modo si spiegherebbe una peculiarità della quale si sono meravigliati già gli storici romani: i Salii che c’erano p. es. anche ad Alba Longa (sopra vol. I pag. 1302), a Lavinium (CIL XIV 2947) e a Tusculum (Serv. Aen. VIII 285), erano perciò a T. sacerdoti di Ercole (non di Marte), poiché Ercole era anche il dio della guerra dei T. e così potevano essere riferiti a lui anche i riti che spettavano a Marte (accanto ai Salii v’erano altri speciali sacerdoti di Ercole, detti a T. cupencus [Serv. Aen. XII 538, v. sopra pag. 819]). La creazione della decuma (CIL XIV 3541 = Dess. 3412) invece è da mettere in relazione col fatto che Ercole era anche dio del commercio e del traffico. Nel tempio di Ercole c’era anche il thensaurus, che non era destinato solo alla decuma ma a tutto il tesoro statale e che deve esserci stato ancora al tempo di Antonino Pio (Appian. bell. civ. V 24 έν αίς μάλιστα πόλεσι [cioè Lavinium, Nemus e T.] καί νυν είσι θησαυροί χρημάτων ίερων δαψιλείς; cfr. CIL XIV 3679. 3679 a = Dess. 6245 ... sub thensauro Herculis et Augusti ...). Così come era protettore del traffico e del commercio, Ercole era anche dio dei pesi (anche a Roma Hercules ponderum: CIL VI 366. Wissowa Religion² 279, 8): la cosiddetta ‘mensa ponderaria', che secondo un’iscrizione (CIL XIV 3687) fu eretta da M. Vareno Difilo, magister Herculaneus, faceva parte del complesso di edifici del tempio di Ercole e conteneva i pesi e le misure ufficiali di T. (cfr. il tempio di Cerere a Roma i cui aediles avevano esercitato le funzioni di polizia annonaria: Wissowa Religion² 300. Latte Gött. Nachr. 1934, 74 segg.).

Data l’enorme importanza che acquistò il santuario di Ercole a Tivoli – paragonabile ad esso è Giove Laziare sui monti Albani, la Diana Nemorense di Ariccia, il tempio della Fortuna a Praeneste, quello di Castore a Tusculum -, è comprensibile che la struttura del tempio fosse usata per altre funzioni; pertanto Augusto amministrava la giustizia nell’atrio del tempio (Suet. Aug. 72), certamente secondo un’antica tradizione. E quando si diffuse anche in Italia il culto dell’imperatore (L. R. Taylor Divinity of the Roman Emperor 163 segg.), esso venne collegato con quello di Ercole. Ai tempi di Augusto l’appena nominato M. Vareno Difilo aveva già costruito una sala appartenente al complesso di Ercole pro salute et reditu Caesaris [Augusti] (scoperta intorno al 1920: cfr. Pacifici Journ. Rom. Stud. X 90 segg. Paribeni Not. d. scav. 1925, 249 segg.), dove fu trovata una statua imperiale con la testa di Nerva (non appartenente alla statua: Ashby The Roman Campagna in Classical Times 113). – Alla stessa unione di culto, espressa da questo collegamento spaziale e dalla formulazione sopra menzionata ... thensauro Herculis et Augusti..., servì in epoca imperiale anche il collegio degli Herculanii Augustales (numerose attestazioni in Dessau Inscr. sel. III p. 705), fra le quali ci piace dar rilievo all’ufficio del magister Hercul. Aug. (CIL XIV 3540. 3665 = Dess. 6243. 6236) e dei quaestores ordinis Augustalium Tiburtium (CIL XIV 3601 = Dess. 1101), ma particolarmente alla formulazione mag. Herculaneo et Augustali (XIV 3665 = Dess. 6236), che riconferma in modo auspicabile il concrescere dei due culti. Naturalmente T. non è solo con questo culto; basti ricordare gli Augustales aeditui Castoris et Pollucis a Tusculum (Dess. 6214ff. Wissowa Religion² 80, 4).                                

Come quasi tutti i problemi del culto di Ercole, è incerto anche quello della sua provenienza. Peterson crede che esso sia giunto dalla Campania a T. e da lì a Roma (Local Cults of Campania 22 seg.), invece Bayet, che ha dedicato al culto di Ercole una monografia estesa e molto meritoria (Les origines de l'Hercule romain 1926; cfr. a tal proposito le osservazioni critiche di Toutain Rev. Ét. lat. VI 1928, 200 segg.), crede che, al contrario, Ercole sia giunto a T. da Roma (prima di lui, già Lugli 122, il cui importante lavoro sul culto romano di Ercole Bayet sembra aver trascurato). E’ indubitabile che i romani, data l’enorme popolarità del mito di Ercole, non lo avranno conosciuto solo attraverso una città latina di campagna, ma da qui a introdurlo ce ne corre molto. Una considerazione molto generale è già per la priorità di T. (per essa parteggiò dopo gli altri Wissowa Religion² 272 segg.). Se il tempio di Giove sul Campidoglio doveva adempiere le funzioni del Giove Laziare sui monti Albani o se il tempio di Diana sull’Aventino fu costruito secondo il modello del tempio di Diana ad Ariccia, allora il nuovo culto di Ercole presso l’Ara Maxima, preso da T., potrebbe avere egualmente servito a questa tendenza politica centralizzante. Ma accanto a questa riflessione generale (e in sé non impegnativa) abbiamo altri argomenti specifici.

Il culto romano di Ercole sull’Ara Maxima fu originariamente un culto gentilizio dei Potitii e dei Pinarii (Serv. Aen. VIII 269. Macrob. III 6, 12): mentre i Potitii non sono più attestabili – Servio dice anche che la famiglia si era estinta presto -, si possono localizzare i Pinarii a T. con una qualche probabilità (Pinus, ‘figlio’ di Numa, è originario di Cures: Plut. Num. 21). Leggiamo il nome di un Pinarius addirittura su un’iscrizione di T. (CIL XIV 3604 = Dess. 1043). Inoltre non è di poca importanza che una cappella di Iuppiter Praestes, una divinità tiburtina dimostrabile – là anzi Hercules Victor deve aver dedicato un altare a Iuppiter Praestes (CIL XIV 3555 = Dess. 3401) – si trovasse presso la casa di Pinarius, il padre dell’imperatore Massimo (Hist. aug. Maxim. et Balb. 5, 3): la famiglia avrà mantenuto le relazioni con T. in questa forma anche in tarda epoca imperiale. A far capire quanto fosse stretta la relazione della famiglia con Hercules Victor può bastare una sola attestazione: Mamert. Paneg. Maxim. 1, 3 ... testatur Herculis ara Maxima et Herculei sacri custos familia Pinaria principem illum (sc. Herculem) tui generis ac nominis Pallantea moenia adisse victorem ... Anzi, perfino la stessa storia dei pirati che Octavius Herennius a T. pretende per la sua famiglia, esisteva anche nella tradizione dei Pinarii: Mamert. Paneg. Maxim. 13, 4 seg. ... aedes vestrorum numinum frequentando et identidem, sicut a maioribus institutum est, invocando statorem Iovem Herculemque victorem. Hoc enim quondam illi deo cognomen ascripsit is, qui cum piratas oneraria nave vicisset, ab ipso audivit Hercule per quietem illius ope victoriam contigisse. Alla provenienza da T. dei Pinarii, difesa p. es. da Wissowa Religion² 275, non credono Boehm 565 e Bayet 319, perché i Pinarii sono attestabili in iscrizioni anche altrove e da T. può essere addotta un’unica iscrizione. Ma è un caso che delle circa 20 iscrizioni su Pinarius in Dessau solo quest’unica abbia relazione col culto di Ercole? Allo stesso modo Boehm loc. cit. e Bayet 264 vogliono confutare la testimonianza di Virgilio, che qui non è stata ancora menzionata: a Virgilio (Aen. VII 285) non spetta alcuna forza probativa perché egli rappresenta il culto di Ercole dei Potitii e dei Pinarii sull’Ara Maxima semplicemente com’era stato a T. Questo non lo possiamo più controllare. Ma Virgilio può aver fatto una tale equiparazione solo se era la corrente delle relazioni fra i due luoghi di culto. – Dobbiamo trarre la stessa conclusione quando su un’iscrizione dell’Ara Maxima (CIL VI 313 = Dess. 3402), che si riferisce al mitico Potitius, la divinità riceve il nome, caratteristico per T., di Hercules Invictus.

Un’altra corrispondenza fra T. e Roma la mostrano i Salii. Come si è già detto, a T. essi servivano Ercole e la loro importanza è ben attestata non solo da numerose iscrizioni, ma anche dall’opera menzionata sopra di M. Octavius Herennius de sacris saliaribus Tiburtium (Macrob. IlI 12, 7). L’ufficio dei salii è certamente dimostrabile anche altrove sporadicamente (cfr. Wissowa 555, 2), ma, oltre Roma, in nessun luogo così tanto come a T. (CIL XIV 3601. 3612. 3674. 4258 = Dess. 1101. 1025. 1889. 6233); degna di nota è anche la denominazione salius Collinus, che delle 10 iscrizioni riportate in Dessau (III p. 565) è dimostrabile quattro volte a T. (Dess. 1043 seg. 1072. 1104; in parte membri del ceto equestre e senatorio e possessori romani di ville a T.: cfr. Wissowa Herm. L 8; vi si aggiunge un’altra iscrizione pubblicata da Schneider - Graziosi Boll. Archeol. comun. XLIII 1916, 292 segg., la quale, se è giusto il completamento, offre la forma salius Quirinalis finora non documentata da iscrizioni [solo letterariamente: Serv. Aen. VIII 285]) e quattro volte a Roma: è sperabile che anche questo non sia un capriccio del caso.

Infine bisogna ancora una volta accennare alla uguaglianza dell’appellativo Victor e al fatto che anche nella dedicazione dell’altare di Ercole si può osservare una certa concordanza: a T. Hercules Victor avrebbe dedicato l’altare a Iuppiter Praestes (CIL XIV 3555 = Dess. 3401), a Roma a Iuppiter Inventor (Διί Ευρεςιω) (Dion. Hal. I 39. Solin. I 7. Orig. g. R. 8).

2. Per quanto attiene al culto di Giove, l’epiteto fa supporre nel nome dello Iuppiter Praestes menzionato sopra una concezione non diversa dallo Hercules Victor. Non troviamo a Roma esattamente lo stesso nome; è attestata la dea Praestita della città sabina dell’Aquila (CIL IX 4322 = Dess. 4030; cfr. Praestitia: Tertull. ad nat. II 11, Praestana: Arnob. IV 3), l’umbra Prestota (Tab. Iguv. VI b 57 ; cfr. Buecheler Umbr. 98), Iuppiter praestabilis presso Benevento (CIL IX 1498 = Dess. 3030; cfr. Iuppiter praestitus della pannonica Poetovio: CIL III 4037 = Dess. 3029). Ma se possiamo a buon diritto ricordare il romano Iuppiter Stator che conferisce resistenza all’esercito (Wissowa² 122), allora non solo è evidente la vicinanza a Hercules Victor, ma anche un altro epiteto è tolto a T. dal suo isolamento: Iuppiter Territor (CIL XIV 3559 = Dess. 3028). Quest’ultimo nome, col quale si può paragonare l’osco Iuppiter Versor (Conway 5) e lo Iuppiter Depulsor di parecchie città, viene equiparato da Carter De deor. Rom. cogn. 57 e da Wissowa² 122, 10 allo Ζευς Δειμάτιοσ del Mons sacer (Dion. Hal. VI 90, 1). Poiché pare che sia stata la Plebs per prima a fondare nella sua Secessio questo culto (Fest. p. 318), è molto evidente il prestito da T.: in ogni caso, per una tale fondazione politico-sacrale doveva essere scelto un culto indipendente da Roma

3. Anche la Iuno Curitis di T. deve avere avuto in sé una natura bellica. Serv. Aen. I 17 habere enim Iunonem currus certum est. sic autem esse etiam in sacris Tiburtibus constat, ubi sic precantur ,Iuno curilis tuo curru clipeoque tuere meos curiae vernulas'. Non è questo il luogo per dibattere i difficili problemi etimologici che si collegano al nome (cfr. da ultimo W. F. Otto Philol. XLIV 197 segg. Wissowa Religion² 186 segg. Bicke1 Rh. Mus. LXXI 559 segg. Kretschmer Glotta X 147 segg. Deubner Röm. Mitt. XXXVI/XXXVII 16). Purtroppo la preghiera non è assolutamente vecchia; è il primo tentativo etimologico di spiegare il nome contemporaneamente attraverso currus e curia e forse, come si può supporre da Serv. Aen. I 8 (Curitis, quae utitur curru et hasta), anche attraverso il “sabino” curis “hasta” (Paul. Fest. p. 63), che si poteva intuire dal nome (perciò per Reitzenstein Straßburger Festschr. z. 46. Versamml. d. Philol. 1901, 153 1 e Wissowa² 189, 3 non si deve cambiare tuo curru in tua curi; che la denominazione della vettura non sia per niente assurda, lo mostra il riferimento di Otto [202, 61] alla Iuno Sospita, che sulle monete della gens Procilia va con la vettura, a prescindere dal fatto che scudo, lancia e vettura dovevano anche essere gli attributi necessari del guerriero divino; Jordan in Preller Röm. Myth. I³ 279, 3 ricorda la άσπίς Ήρας ad Argo [vedi p. es. Gruppo II 1126, 1]). Per questi tentativi di interpretazione la preghiera non è vecchia (Reitzenstein loc. cit.), Bicke1 567 la data con ogni probabilità prima della metà del II sec. a.C. Ma questa datazione può naturalmente valere solo per il testo della preghiera a noi noto, che deve aver sostituito una preghiera molto più vecchia alla dea della guerra Iuno Curitis. Poichè una simile preghiera poteva avere il suo vero senso solo nei grandi contrasti bellici del IV sec. a.C.; nel II secolo, invece, quando i T. erano di fronte a Roma formalmente ancora indipendenti ma politicamente di nessuna importanza, essa poteva continuare a esistere solo sulla base di una conservazione sacrale. A Roma il culto non era autoctono, ma solo dopo la conquista di Falerii nel 241 a.C. introdotto da là (Wissowa² 187. W. F. Otto 199 seg. Bickel 559); probabilmente anche il culto di T. era d’origine falisca (L. R. Taylor Local Cults of Etruria 68), certamente la sua introduzione a T. deve essere di un periodo molto più antico. La sua grande importanza per T. e per il resto del Lazio si evidenzia fra l’altro dal fatto che a T., Aricia, Lanuvium, Lavinium e Praeneste le era sacro un particolare mese (Ovid. fast. VI 61 segg.) – Molto più tardi, quando generalmente si credeva alla fondazione argiva di T. (vedi sopra), la si è equiparata alla Hera di Argo (cfr. la dedica di C. Blandus alla Iuno Argeia: CIL XIV 3556 = Dess. 3098).

4. Nei tempi antichi forse non alla pari di Ercole quanto a fama, Albunea, la decima sibilla, superò per importanza tutte le divinità locali nella tarda antichità e nel Medioevo (v. Wissowa sopra. vol. I pag. 1337. Rzach vol. II A pag. 2096). Anche se la sibilla tiburtina del Medioevo conservava tratti fondamentali della tradizione antica (a tal proposito cfr. p. es. Rzach sopra vol. II A pag. 2170 segg.), per il nostro rapporto è importante naturalmente solo la vecchia divinità locale. Il nostro testimone più antico è Varrone, Lact. inst. 1 6, 12 M. Varro ... in libris rerum divinarum ... ait decimam (Sibyllam fuisse) Tiburtem nomine Albuneam, quae Tiburi colatur ut dea iuxta ripas amnis Anienis, cuius in gurgite simulacrum eius inventum esse dicitur tenens in manu librum, cuius sortes senatus in Capitolium abstulerit (altre prove Thes. 1. 1. I 1502; le ultime parole da cuius sortes ... in poi stanno in due preziosi manoscritti di Lattanzio, fra loro apparentati, ma non sono state accolte da Brandt nel testo; Wissowa² 536, 6 ha messo in dubbio il loro valore senza dire però come l’“interpolatore” sia giunto alle sue comunicazioni). Essa era dunque strettamente unita - ciò deve essere qui sottolineato – all’Aniene, così strettamente che si dice la sua statua fosse stata trovata nei flutti del fiume. Essa dava le sortes sull’Aniene, come p. es. la Fortuna a Praeneste o la Carmenta (con la quale fu occasionalmente equiparata: Serv. Aen. VIII 336) o Egeria e raggiunse una tale importanza che  a un certo momento (sicuramente però prima dell’inizio del I sec. a.C.) la si annoverò fra le 10 sibille (secondo Maass De Sibyllarum indicibus, Diss. Greifswald 1879, 58 la fama della sibilla cumana avrebbe fatto sì che Albunea fosse accolta nella lista); ma ancora prima dell’inizio del I secolo, se in Lattanzio sta a buon diritto l’aggiunta che il senato, dopo l’incendio del tempio di Giove sul Campidoglio, fece portare a Roma le sortes di lei. L’altro nostro materiale completa benissimo questo quadro, con l’eccezione della famosa descrizione di Virgilio che però ha portato a gravi complicazioni: Aen. VII 81 segg. At rex (Latinus) sollicitus monstris oracula Fauni, fatidici genitoris, adit lucosque sub alta consulit Albunea, nemorum quae maxima sacro fonte sonat saevamque exhalat opaca mephitim. Questi versi sono così difficili che B. Rehm (Das geogr. Bild in Verg. Aen. 76) risolleva giustamente la questione: chi o che cosa è Albunea? I versi indussero i commentatori di Virgilio a rispondere che Albunea si trovava in Laurentinorum silva (Prob. Georg. I 10). Per la ricerca moderna questo distacco di Albunea da T. era tanto più gradito perché a T. non ci sono effettivamente vapori sulfurei come invece nel territorio di Lavinium, l’odierna Pratica di Mare (Carcopino Virgile et les origines d'Ostie 1919, 338 segg.; un po’ diverso B. Ti1ly Journ. rom. stud. XXIV 1934, 25 segg.). Ma questi tentativi di localizzazione al di fuori di T. si devono rifiutare fin dall’inizio. Il cosiddetto scolio di Probo è tratto - come osserva giustamente Wissowa sopra vol. I pag. 1337 - dai versi di Virgilio: il teatro dell’Eneide è Lavinium, non T., e dunque anche l’oracolo dovrebbe essere spostato a Lavinium. E’ come se Virgilio – a questa conclusione ci autorizza lo studio di B. Rehm su tutta l’Eneide (cfr. anche Heinze Virgils epische Technik³ 176, 2) - avesse dato, senza precisa conoscenza delle località, una descrizione convenzionale per l’oracolo del sogno. Perciò è anche sicuro mettere Albunea a T., secondo le nostre altre testimonianze, anche se là non si può scoprire la minima traccia di sorgenti sulfuree. – Dobbiamo lasciare da parte anche Fauno poiché solo Virgilio è il nostro garante.

Più fedele alla realtà è la famosa descrizione di Orazio che la nomina insieme all’Aniene e al vecchio Tiburno (carm. I 7, 12 domus Albuneae resonantis et praeceps Anio ac Tiburni lucus et uda mobilibus pomaria rivis; negli scolii che ne fanno parte è detto: delectabile nemus est, consecratum Albuneae nymphae a qua et nomen accepit; dedica con iscrizione: CIL XIV 4262). Essa è dunque collegata alle acque dell’Aniene e al bosco di Tiburno: forse essi ci aiutano a comprenderla più profondamente. Però di Tiburno sappiamo troppo poco; tuttavia è sufficiente l’indicazione che egli discendeva dall’indovino Anfiarao che era figlio di Apollo (v. sopra). Anche l’Aniene era figlio di Apollo (GLM p. 146 R). Il fiume si chiamava originariamente Albula, come il Tevere. E come il Tevere dovrebbe aver ricevuto il nome da Tiberinus Silvius, re di Alba che trovò la morte nel fiume (Varr. 1.1. V 80 Paul. Fest. p. 4. Isid. XIII 21,27), così anche Annius Τούσκων βασιλεύς morì in analoghe circostanze (Plut. Parall. min. 40). Essa è legata ancora più strettamente a queste relazioni attraverso il suo nome. In sé, come ninfa dei monti, potrebbe essere fatta derivare dalla radice preindoeuropea *alb “monte” (cfr. p. es. Alba Longa, più in Walde - Hofmann 27), ma come ninfa delle sorgenti è in relazione con albus, come la località termale Aquae Albulae (iscrizione dedicatoria per Albula e Albula Isis: Gatti Not. d. scav. 1926, 417) e Albula. Così si rende comprensibile anche la particolarissima formazione: Alb-unea sembra essere una forma più antica per il non meno strano albineus “biancastro” (Pallad. IV 13, 3. Leumann Lat. Gr. 205), per le sue quantità -˘˘˘ straordinariamente adatto all’esametro (Leumann 206, che menziona tali aggettivi formati dal greco. -ειος, p. es. Hectoreus, Romuleus, Herculeus ecc.). Forse il nome deve la sua nascita alla poesia epica, cioè alla poesia oracolare, dando questo nome alla sibilla per variare il nome Albula (così Stat. silv. I 3, 75) secondo il modello di Erythrea, Amalthea ecc. (la forma greca è Αλβουναία, Schol. Plat. Fedr. 244 b … δεκάτη η Τιβουρτία μέν γένος, όνομα δέ Αλβουναία; cfr. Suid. s. v. Lyd. mens. IV 47. Geffcken Die Oracula Sibyll. p. 3, 50. Mras Wien. Stud. XXVIII 44. 55).

Il passo di Virgilio già menzionato sopra, Aen. VII 81 segg. sub alta ... Albunea, nemorum quae maxuma sacro fonte sonat saevumque exhalat opaca mephitim, ha creato difficoltà anche in un altro senso: Serv. Aen. VII 84 racconta di un dio collegato all’Albunea di T… alii Mephitim deum volunt Leucotheae conexum. Ora c’era sì una dea dei vapori sulfurei, Mefitis (Wissowa Rel.² 246. Philipp sopra vol. XV pag. 118 seg.), ma nessun dio dimostrabile con questo nome; poiché inoltre a T. non c’erano esalazioni sulfuree, devono averlo inventato per primi i commentatori di Virgilio (cfr. Wissowa sopra vol. I pag. 1337. B. Rehm Das geogr. Bild d. alt. Ital. in Verg. Aen. 76 seg.).

5. Antichissimo sembra essere stato il culto di Tiburno, il “fondatore della città” (cfr. Wissowa Myth. Lex. V 935). Purtroppo ci sono solo piccoli frammenti dai quali possiamo trarre le nostre conclusioni. Innanzitutto Plin. n. h. XVI 237 Tiburtes quoque originem multo ante urbem Romam habent. apud eos extant ilices tres etiam Tiburno conditore eorum vetustiores apud quas inauguratus traditur. Era dunque un bosco sacro (Horat. carm. I 7, 13 Tiburni lucus. Suet. p. 47 R. ... domusque eius [sc. Horati) ostenditur circa Tiburni luculum. Steph. Byz. s. Τίβυρις ... έν η Τίβουρνίνιων τέμενος  ...), nel cui punto centrale stavano le tre antichissime querce. E’ anche probabilmente giusto che il nome di Tiburno sia stato associato solo in seguito ad esse, che dunque il culto degli alberi fosse la cosa principale. Non è difficile trovare parallelismi nel Lazio. Di una venerabile sacra quercia sul Mons Vaticanus con iscrizione “etrusca” racconta Plinio nello stesso passo; anche sul Mons Algidus presso Tusculum c’era una quercia, centro di un culto antichissimo (Liv. III 25). Presumibilmente anche il bosco di Tiburnus era in un posto eccellente della città; anzi, se esso fu inaugurato là, egli deve aver scelto per questo un posto più alto, come Numa il Campidoglio (Liv. I 18, 6). – Oltre a questo bosco, allo stesso modo è da intendere il luogo di culto di Albunea (vedi sopra) e anche il culto di Diana Nemorensis (Marziale VII 28, 1 ... Tiburtinae silva Dianae. CIL XIV 3537 Diana Opifera Nemorensis; cfr. 3536 Diana Caelestis. IG XIV 1124 Κύρια Αρτεμις. Wissowa 247, 4).

La Diana Nemorensis è notoriamente originaria di Ariccia; fu presa da là quando T. era membro della lega latina. In modo analogo il culto della Fortuna (CIL XIV 3540 praetoria, 3539 opifera, 3561 Augusta) è preso probabilmente da Praeneste: anche in esso possiamo riconoscere l’espressione della situazione politica, cioè della lunga alleanza fra T. e Praeneste, come anche, al contrario, alcuni dei templi latini di Ercole saranno fondati a partire da T.

6. Ci sarebbe da menzionare ancora il culto di Vesta che possiamo desumere da delle iscrizioni fatte per le Vestali – attestabili oltre che a Roma solo ad Alba e a Lanuvium (Wissowa² 157, 4) – e (v. sotto) da documenti medievali (CIL XIV 3677. 3679 = Dess. 6244 seg.; su una nuova iscrizione del III sec. d.C. trovata insieme alla tomba della vestale Cossinia, si veda Hallam Journ. rom. stud. XX 1930, 14 seg.).

7. Dei sacerdozi di T. sono stati menzionati il cupencus e i salii (sopra) in relazione al culto di Ercole; delle Vestali abbiamo appena parlato. Ci sarebbe ancora da menzionare il flamen Dialis, il sacerdote di Giove, che al di fuori di Roma compare solo a Lanuvium, Lavinium e T. (CIL  XIV 3586 = Dess. 1158): a T. egli apparteneva a Iuppiter Praestes menzionato sopra. – E’ anche attestabile l’istituzione degli auguri (CIL XIV 3672f., cfr. Macrob. III 12, 7... diebus certis et auspicato ... [riferito ai Salii a T.]; anche il fondatore della città, Tiburno, viene messo in relazione con la disciplina augurale: Plin. n. h. XVI 237). Per la grande diffusione di questo sacerdozio in Italia non è pensabile una trasmissione da Roma: si paragoni contro Wissowa 526, 5 la lunga lista in Dessau Inscr. sel. III p. 569, p. es. Dess. 1368 aug. Laur. Lavin., Dess. 1416 augur Lunae, Dess. 5673. 6650 augur Suasae ecc.

VI. La topografia della città è studiata molto insufficientemente; fino a poco tempo fa non c’era una pianta della città antica. Beloch RG 213 stima la superficie della città vecchia in 16 ha, quindi essa era circa grande come la città palatina, molto più piccola di Ardea, Praeneste e Lavinium. Il corso delle mura è descritto da V. Pacifici Tivoli nel Medio-Evo 29 segg. (Atti e memorie della società Tiburtina V-VI 1925/26), al quale dobbiamo anche il primo tentativo di una pianta della città (in seguito W. Bernard ha gentilmente disegnato la nostra pianta).

Delle cinque porte cittadine che già Nibby ha accertato, ne possiamo citare, con l’ausilio della nostra tradizione scritta, soltanto due: Frontin. aqu. urb. Rom. 6 concipitur Anio vetus supra Tibur vicesimo miliario extra portamRRA ...; il passo è certamente corrotto, ma che già Alberto Cassio (1756) con la sua congettura Baranam si fosse avvicinato al giusto, lo dimostra l’altomedievale fundum veranum studiato da Pacifici 29, 8. L’altra porta CIL XIV 3679 = Dess. 6245 …por/ta Esquilina ...: qui il completamento di porta è stato messo in dubbio da Hülsen, sopra vol. VI pag. 681, 33, poiché l’esistenza di una porta Esquilina a T. è stata sfruttata da Nissen It. Ldk. II 495 per estese conclusioni storiche (riguardo allo sviluppo di Roma). Ma il completamento è più che probabile: la romana porta Esquilina era tanto rivolta verso T., che con molta esagerazione si poteva affermare che da lì si riusciva a vedere una villa a T. (Cic. de orat. II 68, 276). Se d’altra parte l’iscrizione tiburtina per designare il luogo dice il nome ... ta Esquilina, nessun completamento è tanto evidente come porta, a prescindere dal fatto che la parola Esquilina mantenutasi inequivocabilmente potrebbe portare anche in altri completamenti alle stesse conseguenze che Hülsen vorrebbe evitare.

Nei lavori topografici l’antica tradizione ci pianta in asso. L’unica cosa che sentiamo è che un quartiere cittadino si chiamava Σικελικόν ancora in epoca augustea (Dion. Hal. 1 16, 5; v. sopra pag. 817). Materiale prezioso e finora non usato (ad eccezione di Nibby Analisi ... della carta de' dintorni di Roma III 173 segg., che usa la bolla di Benedetto VII, e Pacifici) ci viene offerto invece dai documenti papali pubblicati nel 1880 da L. Bruzza Regesto della chiesa di Tivoli (cfr. anche il materiale in P. F. Kehr Italia pontificia II 75 segg.). Qui non si può fornire la rielaborazione ancora mancante, però un piccolo saggio dimostrerà l’importanza del materiale. Un documento di Benedetto VII. dell’anno 978 d.C. (Bruzza 32 seg.) nomina i seguenti quartieri: ... regionem totum in integrum que appellatur foro. et vicu patricii. et oripo cum aecclesia sancti alexandri. et aquimolis cum forma antiqua iuxta episcopio. Item ecclesiam sancti pauli. et regione que vocatur formello cum gradas suas. et cum omnibus ad eas pertinentibus sibi invicem coerentem. Et inter affines ab uno latere silice publica. Qui descendit ad porta maiore et usque in porta scura. A secundo latere muro civitatis tyburtina. usque in pusterula cum aeclesia sancti pantaleonis cum turre et scala marmorea. et deinde ascendentem per via publica. usque ad murum antiquum sancti pauli ex utraque vero partem ipsum murum et pervenit usque in muro civitatis. Similiter et regione que appellatur plazzula infra ipsa civitate. Ab uno latere muro ipsius civitatis. Et a secundo latere silice que pergit ad posterula de vesta. Et a tertio sive a quarto latere monasterio sancti benedicti. Necnon et alium regionem totum in integrum qui vocatur castro vetere. cum aecclesia sancte mariae et sancti georgii. que sunt diaconie. Ab uno latere fossatum unde pergit aqua in vesta. ex utraque vero parte murus civitatis circumdatur…Segue una lunga fila di località, specialmente di fundi, che in maggioranza portano senza dubbio nomi antichi. Dunque accanto al Forum si trovava una strada detta vicus patricius che anche in questi documenti viene menzionata dappertutto insieme col Forum; una vecchia denominazione, come dimostra l’esistenza di un vicus Patricius a Roma fra Cispius e Viminale (cfr. Hülsen-Jordan I 3. 339); supposizioni sull’origine del nome in Fest p. 221. 348. Più difficile è interpretare la forma oripo: sembra il fr. oripeauauri pellis’ = “orpello” e potrebbe quindi condurre a una zona di orafi o, meglio, di ramai, e si potrebbe ricordare la regio VIII argentaria (CIL XI 3821; sopra vol. II pag. 2425) e il medievale clivus argentarius a Roma (Hülsen sopra vol. II pag. 706). Tuttavia io preferirei equiparare oripo con euripus (così già Nibby III 188 seg.), che è la denominazione d’epoca imperiale (e medievale) di un canale, più volte attestata per Roma (cfr. Jordan II 64 seg. sopra vol. VI pag. 1284). Fino a che punto le chiese, come p. es. la ecclesia S. Alexandri, abbiano preso il posto di un antico tempio, non si può naturalmente decidere qui. L’altra indicazione “aquimalis” sembra designare un mulino ad acqua e ricordare le molinae a Roma (Jordan II 226. 345). La forma antiqua iuxta episcopio è la condotta dell’acqua: è una denominazione tecnica usata p. es. anche da Frontino (cfr. Jordan II 339). La seconda regione si chiamava Formello, probabilmente per la condotta d’acqua. Se con le gradae relative ad essa si intendano i gradini, non è chiaro; forse è utile accennare al fatto che nella Roma medievale con gradella si designava una regione (Jordan II 534). La silice publica è una strada pavimentata con ciottoli, non attestabile nell’antica Roma, ma già Ammian. Marc. XIV 6, 16. XXVI 3, 5 equipara silices a “strada” ma non nel senso di un nome proprio. Questa strada portava giù verso la porta maiore e la porta (o)scura: la porta maior sarà a Roma (qui per porta Praenestina e Labicana: Jordan I 1, 357; oggi ancora Porta Maggiore) una denominazione secondaria: la “grande” porta. Non possiamo più rintracciare nemmeno il nome per la porta obscura; a Roma non c’era niente di simile. Dall’altra parte questa regione arriva fino alle mura cittadine compresa una “porticina” (posterula, numerose anche a Roma: Jordan I 1, 383) e la chiesa di S. Pantaleone col campanile e gradini di marmo (di un vecchio tempio?). La via publica può forse essere identica alla via Tiburtina; seguono il “vecchio” muro di S. Paolo e poi di nuovo le mura cittadine. La terza regione si trovava nella città bassa e si chiamava Plazzula (= strada ampia, piazza: Jordan I 1, 523, 49 a?), delimitata dalle mura, da una strada (silice), che portava alla porticina di ‘Vesta', e dal monastero di S. Benedetto. La quarta regione era il Castro vetere con le chiese di S. Maria e di S. Giorgio; da una parte un fossato dove era portata la condotta d’acqua, aqua in Vesta, dalle altre due parti delimitata dalle mura. Il nome Castro vetere ha molti significati. Può essere un vecchissimo nome per la fortezza, come Castrimoenium in territorio albano, inoltre – cosa che qui non c’entra – il nome di una colonia di cittadini come p. es. Castrum novum Etruriae o Castrum novum Piceni; può anche significare, come spesso a Roma, “caserma”, essere quindi di origine relativamente tarda; infine si impiegò castra anche per condutture d’acqua (cfr. Jordan II 64). Ma il nome nella forma Castro vetere è in ogni caso secondario: esso presuppone già l’esistenza di una costruzione più nuova, come infatti in altri documenti è spesso tramandato un castellum novum (Bruzza 135)

Nel Forum (oggi Piazza dell'Olmo) si trovava il tempio di Ercole di cui si è già parlato sopra. Il pezzo più antico conservatosi è la Cella di epoca repubblicana, visibile dietro l’abside della cattedrale (Lanciani Boll. archeol. comun. 1893, 293). – Il complesso architettonico, del quale facevano parte, come detto, la mensa ponderaria, il luogo del culto imperiale, il thensaurus e la biblioteca, occupava a forma di terrazza la parte del colle con la sottostruttura di mura massicce e arcate, e di esso facevano parte anche i resti della cosiddetta villa di Mecenate: un cortile quadrato circondato da arcate con un santuario nel mezzo, oggi fabbrica di carta. Un preciso rilevamento dei resti e una ricostruzione del tempio è una necessità urgente (cfr. Bormann Altlat. Chorogr. 225 segg. Dessau Ann. d. Inst. LIV 116 segg. Ashby The Roman Campagna in Classical Times 111 segg. Delbrück Hellenist. Bauten in Latium II 50 124 seg. Pacifici Journ. rom. stud. X 90 segg. Paribeni Not. d. scav. 1925, 249 segg. G. H. Hallam Journ. rom. stud. XXI 276 segg., che recensisce anche luoghi del culto d’Ercole sotterranei appena scoperti a Sette Camini e presso Gabii [Grotta Saponara]). – La piazza davanti al tempio era una stazione di vetturini (cisiari): v. CIL VI 9485 = Dess. 7229... collegium iumentariorum qui est in cisiaris Tiburtinis Herculis; cfr. Mau sopra vol. III pag. 2589.             

Oggi i due templi ben conservati sono l’orgoglio di T., il rotondo tempio di ‘Vesta’ e quello quadrato della ‘Sibilla’: i nomi delle divinità alle quali essi erano in realtà consacrati, non sono stati rintracciati. Sul tempio rotondo un’iscrizione di epoca sillana (CIL XIV 3573) nomina come costruttore il funzionario L. Gellius; anche i reperti indicano l’inizio del I secolo a.C. Dettagliate descrizioni in Delbrück Hellenist. Bauten in Latium II 11 segg.

Da iscrizioni d’epoca imperiale (CIL XIV 4259. 3663 = Dess. 5630. 6234) e dai documenti papali del Medioevo menzionati sopra (Bruzza 112, 123) è attestabile un anfiteatro; esso esisteva ancora all’epoca di Pio II. (Friedlaender SG IV9 211). Da documenti sono attestate anche caserme di gladiatori (ludi) (Bruzza 122). – Che a T. ci fosse anche un teatro, lo dimostra un’iscrizione secondo la quale un duumvir fece erigere fra l’altro porticum pone scaenam (CIL XIV 3664 = Dess. 5546). – Inoltre c’erano tre teatri nella Villa Hadriana. – E’ opportuno accennare anche a Boёtius e Car1gren Die spätrepubl. Warenhäuser in Ferentino und Tivoli: Acta Archaeol. III (1933; a me non accessibili)

T. era nota come località di villeggiatura, quasi tutti i romani importanti avevano le loro ville a T. (cfr. Bourne 34 segg.). Un’idea della sontuosità di una tale casa ce la dà la descrizione che Stazio fa della villa di P. Manilius Vopiscus silv. I 3, 1 segg. (cfr. Groag sopra vol. XIV pag. 1142 seg.) e ancor più la Villa d’Este, che, come membro di un’ininterrotta tradizione, illustra forse meglio una villa romana piuttosto che le strane costruzioni di Adriano. Nessuna delle ville è stata identificata con sicurezza. – Il segreto del Sabinum di Orazio (v. Philipp sopra vol. I A pag. 1590 segg.) ha dato vita a una bibliografia specifica sterminata, della quale si devono nominare p. es. Ashby Journ. rom. stud. IV 121 segg., Lugli Mon. Ant. XXXI 1926, 457 segg. (pag. 593 - 598 una bibliografia molto meritoria), Lamer Hum. Gymn. XXXIX 1928, 71 segg., G. H. Hallam Horace at T.² (1927), M. Blake Memoirs of the Amer. Acad. in Rome VIII 1930, 57 segg., Th. D. Price ivi X 1932 e Dunbabin Class. Rev. XLVII 1933, 55 segg.

Come guida topografica di T. si raccomandano particolarmente, accanto al bel libro di Ashby The Roman Campagna in Classical Times 110 segg., per la prima introduzione l’utile guida di G. Bagnani The Roman Campagna and its Treasures 1929, 226 segg. – in entrambe sono utilizzati i risultati di V. Pacifici Tivoli nel Medio-Evo 1926. Opere più vecchie (anche quella di Nibby Analisi storico-topografico-antiquaria della carta de' dintorni di Roma III [1837] 162 segg.) sono trattate criticamente nella introduzione di A. Bormann Altlatin. Chorographie (1852); proprio a T. sono dedicate in Bormann le pagine 222-238. Egualmente breve visione d’insieme su T. in Dessau ; CIL XIV p. 365 segg. e Nissen It. Ldk. II 611 segg. La monografia, utile almeno come raccolta di materiali, di Ella Bourne A Study of Tibur, Baltimore 1916, che si basa strettamente sulla rappresentazione di Dessau, non tratta problemi topografici. Le iscrizioni di T., raccolte da Mancini per il nuovo Corpus ‘Inscriptiones Italiae’, non sono ancora comparse alla conclusione di questo articolo (maggio 1935). – Allo studio di T. serve la rivista Atti e memorie della Società Tiburtina, della quale sono già apparsi 12 volumi.

[St. Weinstock.]


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