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Sacerdotes
gli Ordini Sacerdotali dell'antica Roma
Sacerdotes. L’etimologia della parola sacerdos è trasparente; accanto alla radice sacer c’è  dentro la radice do ‘dare’.
I S. romani sono stati sinteticamente trattati da Wissowa Religion u. Kultus der Römer (1912) 479 segg. (questa descrizione in seguito sarà più usata che citata). Essi si dividono in sacerdoti di stato, s. publici p. R. Quiritium e alcuni altri sacerdozi che non fanno parte dei sacerdoti di stato. I sacerdoti fuori Roma sono solo s. municipales nell’epoca della repubblica; soltanto in periodo imperiale si aggiungono s. provinciales.
I. Sacerdotes publici p. R. Quir.
A. Origine. Per conoscere l’origine del sacerdozio romano abbiamo tre mezzi: 1. le basi giuridico sacrali della religione romana; 2. le condizioni storiche più antiche; 3. paragoni con altri popoli.
1. Le basi giuridico sacrali. Gli dei romani, come quelli di tutta l’antichità, sono dei di stato, essi esistono nello stato, appartengono allo stato e il loro rapporto con lo stato si basa su un negozio giuridico. Nella fondazione dello stato viene stipulato un contratto con gli dei secondo cui gli uomini, sia lo stato sia il singolo, si obbligano a certi servizi attraverso i quali si pensa di indurre la divinità a fornire servizi corrispondenti. Perciò la religio è la iustitia erga deos (Cic. part. or. 78). Questo negozio giuridico viene stipulato a nome dello stato, e suoi rappresentanti potranno essere solo i funzionari statali, poiché nelle cose sacre ogni comunità viene rappresentata dal suo capo (Mommsen St.-R. I 243 segg.). E i doveri che lo stato si assume devono essere esercitati in suo nome anche dai funzionari. Quindi nel tempo più antico la funzione più alta, cioè il regno, e il sacerdozio devono essere avvenuti contemporaneamente. Di quest’epoca si sono conservate alcune particolarità, p. es. le azioni di culto straordinarie come compito della magistratura, il sacerdozio a vita, i littori, l’assenza di collegialità, la denominazione rex. Più dettagliatamente v. sotto.
Poi, poco a poco, i compiti sacerdotali vennero divisi da quelli dei magistrati perché subentrò un sovraccarico al quale, data la grande scrupolosità dei romani nell’adempimento di doveri sacri, può aver concorso anche il motivo addotto da Livio  (I 20, 1; cfr. I 33, 1), che cioè doveva essere assicurato al culto continuità maggiore di quanto potesse capitare, visti i frequenti impedimenti dei funzionari. Tuttavia, secondo la concezione giuridico - sacrale i sacerdoti dovevano restare anche organi dell’amministrazione statale. I sacerdozi si staccarono dal regno allo stesso modo delle magistrature. Le particolarità di questo distacco sono ancora riconoscibili nelle condizioni storiche. 
2. Le condizioni storiche più antiche. All’epoca in cui la sacralità romana entrò nella luce della storia, sono i magistrati ad avere ancora le azioni di culto straordinarie. Inoltre troviamo i seguenti ordini sacerdotali: per primi ci sono l’uno accanto all’altro un sacerdozio maschile e uno femminile: rex sacrorum - pontifex maximus - pontifices da una parte e regina sacrorum - virgo Vestalis maxima - virgines Vestales dall’altra. A questi si aggiungono 15 sacerdoti singoli, i flamines, (Fest. p. 154 M.) tra i quali si devono distinguere tre flamines maiores: flamen Dialis, Martialis e Quirinalis e dodici flamines minores, di solo 10 dei quali sappiamo il nome, cioè il flamen Volturnalis, Palatualis, Furrinalis, Flora1is, Falacer, Pomonalis, Volcanalis, Cerialis, Carmentalis, Portunalis (v. sopra vol. VI pag. 2484 segg.); inoltre un Collegium, gli augures e parecchie sodalità sacerdotali, i Fetiales, i Salii, i Luperci, i fratres Arvales e i sodales Titii. Fra questi i Salii si articolano in S. Collini (anche Agonenses, ma non attestati da iscrizioni, Varrone de 1. 1. VI 14; cfr. Fest. p. 254 M. Paul. p. 10 M., als Άγωναλεις Dion. Hal. II 70, 1), e S. Palatini, i Luperci in L. Quinctiales (sulla forma nominale cfr. Wissowa op. cit. 559, 2) e L. Fabiani. Queste sodalità si distinguono dai collegi per il fatto che essi compiono le loro azioni di culto in comune, mentre all’interno dei collegi le funzioni cambiano (Mommsen St.-R. II 19, I) e nelle azioni di culto operano sempre solo i singoli. Inoltre i collegi, oltre alle azioni di culto, hanno anche il compito di discutere preventivamente i decreti del senato che si riferiscono a faccende sacre. Cfr. Mommsen op. cit. III 999 seg.
L’insediamento di tutti questi sacerdoti, dei curiones e dei tribuni celerum (v. sotto.) è attribuito dalla tradizione romana (Dion. Hal. II 64. 70. 72. 73) a Numa. Tuttavia risulta senz’altro evidente che un sacerdozio così multiforme non è stato creato di colpo ma si sviluppato gradatamente. Dalla concezione di base giuridico - sacrale è risultato che il rappresentante originario di tutto il culto statale deve essere stato il re. Tuttavia alcune parti singole non si possono ricondurre al re.  La più evidente è la derivazione dell’ufficio dalla dignità regale per il rex sacrorum (questa è la designazione ufficiale; sui nomi rex sacrificiorum  rex sacrificulus v. Mommsen op. cit. II 15, 4 e l’articolo Rex). Questo rex sembra essere stato il vero successore legale del re, che poco a poco è stato derubato di tutto il potere profano e anche di quasi tutto quello sacro.  La sua importanza fra i sacerdoti è molto scarsa. Cfr. l’articolo Rex. Al suo fianco sta la moglie, la regina sacrorum (CIL VI 2123 seg. Paul. p. 113 M. Serv. Aen. IV 137. Macr. Sat. I 15, 19), che è colei che succede alla regina. 
Poiché a entrambi è restato solo un piccolissimo numero di azioni sacrali, possiamo presumere che già all’epoca dei re i compiti del re e della regina siano stati in gran parte trasferiti ai sacerdoti. Si deve supporre che le più importanti azioni di culto del re siano passate al Collegium, che le detiene anche in seguito, cioè i pontifìces. Questi hanno assunto le azioni di culto di una sola persona perché, pur nella loro totalità, simboleggiano solo una persona rappresentata dal capo del Collegium, il Pontifex maximus.
Allo stesso modo, le azioni di culto della regina, che avevano luogo nel centro del palazzo reale, sono passate al Collegium femminile corrispondente ai pontefici, le virgines Vestales con a capo la virgo Vestalis maxima. In quest’occasione è certo molto evidente che i compiti della moglie del re passano alle virgines. In effetti le virgines Vestales, rispetto ai pontifices, non sono come le figlie (così Mommsen op. cit. II 54. Marquardt-Wissowa Römische St.-V. III 314 seg.), ma le mogli. Ciò risulta dal loro abito ufficiale che è quello di una sposa. Cfr. Jordan Tempel der Vesta 47 segg. Dragendorff Rhein. Mus. LI 1896, 281 segg. Santinelli Rivista di filologia XXXII 1904, 63 segg. Anche il cerimoniale della captio è lo stesso del matrimonio. Cfr. sopra vol. I pag. 1509. Che le virgines Vestales facciano parte degli elementi più antichi della religione romana e che esse siano più antiche dei pontifìces, risulta dal rigoroso rituale del loro servizio. Cfr. Wissowa op. cit. 508. La dimostrazione tentata da Jordan (op. cit. 84 seg.) che le vestali siano un elemento più recente del sacerdozio romano, non mi sembra riuscita. 
Accanto ai pontifìces, gli augures occupano una posizione non meno stimata. Che questi due collegi siano i componenti fondamentali dell’ordinamento sacerdotale romano, risulta dal fatto che essi vengono trasferiti anche alle coloniae (Lex col. Gen. [CIL II Suppl. 5439] e. 66. 67. Cfr. Mommsen Ges. Schr. I 248 segg. Liebenam Städteverwaltung 342 seg.). L’attività degli auguri è doppia. Dapprima essa consiste nel compimento dell’augurium, cioè nella richiesta agli dei del loro consenso per una determinata impresa. E’ inoltre loro compito assistere i magistrati nella richiesta degli auspicia ed eliminare con una loro perizia le difficoltà e i dubbi che ne nascessero. Cfr. sopra vol. II pag. 2313 segg.
Accanto ai pontifices e agli augures, il terzo Collegium erano in origine i fetiales. Come gli auguri, essi sono rappresentanti di una scienza speciale, cioè delle forme sacrali considerate per il movimento di diritto internazionale. Il Collegium come totalità entra in funzione solo quando deve consegnare per il senato o una magistratura una perizia sulle forme di diritto internazionale. Se si tratta della stipula di un contratto o di una dichiarazione di guerra, entrano in azione sempre solo due feziali, uno dei quali, in qualità di pater patratus, conduce la conversazione, l’altro, il verbenarius, porta le erbe sacre raccolte sulla rocca. Esempio del modo di contrarre un’alleanza Liv. I 24, 4 segg. L’antichità di questo Collegium risulta dall’uso del silex per la macellazione dell’animale da sacrificio. Il Collegium diminuì di importanza a causa dell’ampliamento via via maggiore dello stato romano e venne aggiunto alle sodalità quando il concetto di Collegium si restrinse ai quattro Collegia maxima. Cfr. vol. VI pag. 2259 segg. 
Restano ancora i flamines e le sodalitates. Entrambi sono senza dubbio più antichi dei pontifìces  e degli augures; i flamines ricevono in parte il loro nome da dei che non conosciamo affatto; la vetustà delle sodalità risulta dai nomi in parte non interpretabili, in parte però anche illuminanti. Per quanto riguarda i Salii possiamo dare uno sguardo ai tempi antichissimi con sufficiente chiarezza. Qui dobbiamo distinguere due parti, i S. Collini o Agonenses e i S. Palatini. E’ chiaro che i nomi sono loro attribuiti secondo le diverse località della loro attività. In origine essi hanno servito anche diversi dei, cioè i S. Collini Quirinus, i S. Palatini Marte. Entrambi sono dei guerrieri (Wissowa op. cit. 154). Una comunità unita, però, non venererebbe mai due dei simili in posti diversi della sua località e non impiegherebbe mai sacerdozi simili per lo stesso servizio. I due dei, come i due gruppi di Salii, devono perciò provenire dall’epoca degli insediamenti singoli sul territorio della futura Roma. Lo stesso vale naturalmente anche per i flamines Martialis  e Quirinalis. 
La stessa cosa è per i Luperci. Soltanto che qui la denominazione delle due comunità non è così chiara. Nei nomi Fabiani e Quinctiales troviamo invece chiare relazioni con due famiglie che nell’antichità devono avere esercitato il culto. Questi sono gli unici indizi contenuti nei nomi dei sacerdozi dell’usanza, propria del periodo più antico, di trasferire a singole famiglie la cura del culto dei sacra statali (qui non vorrei conteggiare i fratres Arvales e il pater patratus dei feziali, come fa Wissowa op. cit. 481, perché il rapporto non è sicuro). Che le gentes abbiano amministrato non solo i loro sacra privata, ma anche i sacra publica, risulta specialmente da Labeone in Fest. p. 253 M. popularia sacra sunt, quae omnes cives faciunt nec certis familiis attributa sunt. Cfr. su ciò Mommsen De collegiis et sodaliciis 7 segg. e sopra vol. VII pag. 1184 segg. dove sono indicati ancora più passi e i culti a noi noti che stavano sotto l’amministrazione di gentes. In questo modo il culto di Fauno è stato evidentemente trasferito ai Fabii e ai Quinctii; questi ultimi facevano parte del vecchio complesso della comunità palatina, mentre l’appartenenza dei Fabi alla comunità quirinale viene dimostrata da Liv. V 46, 52, 3. Tuttavia non possiamo più dimostrare un culto separato come presso i Salii, entrambi servono Fauno nella sua festa, i Lupercali, e ciò è inseparabilmente legato al Palatino. Perciò Wissowa crede (op. cit. 559 seg.) che originariamente vi sia stato solo questo singolo culto e che nel sinecismo delle due comunità anche una famiglia dell’altra comunità sia stata incaricata di praticare lo stesso culto. Questo sarebbe un fenomeno molto singolare, per me improbabile. Non escludo che abbiamo a che fare anche qui con due culti originariamente separati, la cui unione è però diventata molto più completa di quella dei Salii. Il rapporto gentilizio si allentò poi sempre più e la gens divenne una sodalitas. Come tale è nato poi fin da principio il terzo ramo dei Luperci, i Luperci Iulii, che furono introdotti nell’anno 44 in onore di Cesare (Cass. Dio XLIV 6. 2. XLV 30, 2. Suet. Caes. 76), ma soppressi già nel 43 (Cic. Phil. XIII 31 e in Non. p. 273). Che i Luperci debbano essere intesi come culto gentilizio originario, è contestato da Unger (Rhein. Mus. XXXVI 1881, 54 segg.) e dopo di lui da Crusius (Rhein. Mus. XXXIX 1884, 163 segg.). Ma cfr. Wissowa op. cit. 560. 1. Per maggiori informazioni v. articolo Luperci.
Kornemann (sopra, vol. IV pag. 383) intende considerare anche i sodales Titii come culto gentilizio originario, perché non c’è bisogno di alcuna prova che la loro derivazione da Tito Tazio (Tac. ann. I 54; hist. II 95) sia una costruzione più tarda. Tuttavia a me sembra più probabile la derivazione dal quasi scomparso titus, che secondo Schol. Pers. 1, 20 significa il membrum virile, se si pensa quale ruolo abbia il Phallos nel culto antico. Cfr. articolo Sodales Titii.
Totalmente oscura è l’origine dei fratres Arvales. Nel loro nome essi tradiscono una relazione con la campagna e in effetti il loro servizio è rivolto alla Dea Dia (= Cerere, Wissowa op. cit. 195) e consiste in una intercessione per la prosperità dei campi. Wissowa (481) pensa di dedurre dal nome fratres un’antica parentela di sangue, ma io credo che non si possa forzare in questo modo l’espressione. 
3. Paragone con altri popoli. Recentemente, negli ambienti di psicologia sociale, si accarezza il pensiero che i sacerdozi antico-romani, così come tutte le altre corporazioni note dall’antichità, come senato, gerusia, sinedrio ecc., siano da ricondurre nella loro origine a certe ‘leghe maschili’ come quelle che si trovano presso i popoli primitivi. Restiamo in attesa della prova scientifica. 
B. Sviluppo storico. La più antica cerchia di S. sperimenta nel corso del tempo diverse variazioni. Già in epoca preistorica ha luogo una riunione di diversi sacerdozi. I Pontifices, il rex, i flamines e le virgines Vestales vengono riuniti nel collegio pontificale in senso più ampio. La comunione dei primi tre risulta da Cic. de domo 135 e de har. resp. 12, dove sono enumerati tutti i membri del Collegium secondo l’età, senza riguardo alla dignità sacerdotale rivestita. Che anche le Vestali appartengano al Collegium risulta da Macr. Sat. III 13, 11 e dalla loro subordinazione sotto la giurisdizione del pontifex maximus (Liv. XXVIII 11, 6. GelL. I 12, 9), che le introduce nel loro ufficio anche con la captio. (Gell. op. cit.).
Ampliamenti dei sacerdozi sono avvenuti più volte. E’ nell’essenza delle religioni politeistiche e quindi anche di quella romana riconoscere come esistenti e attivi anche altri dei, oltre ai propri. Perciò si era assolutamente tolleranti anche nei confronti di coloro che credevano ad altri dei, anzi attraverso la evocatio (v. sopra vol. VI pag. 1152 seg.) lo stato assumeva su si sé, perfino in caso di distruzione di una città, i doveri sacri di quella. Dunque non si vietava a nessuno di sacrificare a dei stranieri. Di questo permesso fecero uso soprattutto i molti forestieri che risiedevano a Roma. Però questi culti, nonostante la tolleranza dello stato, non erano culti statali, ma solo culti privati; al loro servizio provvedevano le famiglie in questione. Se però un tale culto privato aveva assunto una dimensione maggiore o se veniva introdotto da famiglie influenti, anche lo stato provvedeva ad esso e assegnava il suo governo o a uno dei sacerdozi già esistenti oppure ne fondava uno nuovo. Con l’assegnazione di sempre nuovi incarichi ai sacerdozi già esistenti, il carico di lavoro di questi ultimi diventò considerevolmente più gravoso e fu più volte necessario aumentare il numero dei sacerdoti. Così quello dei pontifices e degli augures  salì da 3 a 6, 9, 15, 16, quello delle virgines Vestales da 4 a 6. Cfr. il capitolo organizzazione. 
Una fondazione nuova è avvenuta solo una volta in epoca repubblicana con l’inserimento di un sacerdozio particolare per il culto degli dei greci. Che esso non abbia la stessa antichità degli altri sacerdozi, risulta già dal nome. I sacerdoti non hanno nomi individuali come quelli antico-romani, ma si chiamano nell’epoca più antica Ilviri sacris faciundis, dal 367 Xviri sacris faciundis, da Silla XVviri sacris faciundis. Questo più tardo inserimento si è conservato anche nella tradizione: mentre il vecchio ordinamento sacerdotale si fa risalire a Numa, si attribuisce a Tarquinio Prisco l’inserimento dei IIviri sacris faciundis (Dion. Hal. IV 62, 4 seg. Zonar. VII 11 C. Valer. Max. I 1, 13). Ancora qualcosa d’altro sembra risultare dal nome. In tutta l’amministrazione statale romana troviamo la denominazione di una magistratura usata secondo il numero dei suoi membri, se non si tratta di magistrature fisse, p. es. Decemviri legibus scribundis, Duoviri aedi dedicandae. Potremo dunque supporre di avere a che fare qui con un sacerdozio nominato originariamente da caso a caso, il cui compito era quello di esaminare i libri Sibillini – da questo risultò la denominazione abituale di interpretes (Sibyllae) – e di mettere mano ai riti da questi pretesi, che naturalmente consistevano sempre in azioni del graecus ritus. Pertanto i IIviri sacris faciundis sono i rappresentanti del graecus ritus di fronte agli altri sacerdoti, ai quali spettano le azioni di culto secondo il patrius ritus. Cfr. articolo Quindecimviri sacris faciundis.
Di una nuova fondazione non si può parlare per il secondo sacerdozio creato in epoca repubblicana, i IIIviri, in seguito VIIviri epulones. Questi sono nati da una ramificazione del Collegium dei pontifices al quale, nel corso del tempo, erano state assegnate sempre più azioni di culto così che fu urgentemente necessario un alleggerimento. Perciò nell’anno 196 (Liv. XXXIII 42, 1) l’allestimento del ludorum epulare sacrificium venne trasferito a uno speciale collegio, che constava dapprima di 3 (Cic. de or. III 73), poi di 7, infine di 10 membri (Cass. Dio XLIII 51, 9). Però il nome rimase VIIviri epulones anche dopo l’ultimo ampliamento. La nascita del Collegium si mostra anche in seguito giuridicamente indipendente dal collegio pontificale (Cic. de har. resp. 21. Cass. Dio XLVIII 32, 4). Cfr. l’articolo Septemviri Epu1ones.
L’innovazione più importante in epoca repubblicana è l’introduzione dell’elezione popolare per Pontifices, augures, XVviri sacris faciundis e VIIviri epulones. Cfr. capitolo Organizzazione.
Mentre così da un lato vengono creati nuovi sacerdozi, altri diminuiscono. Questo vale soprattutto per le sodalità dei fratres Arvales e dei sodales Titii. Di entrambe non conosciamo alcun membro d’epoca repubblicana, anzi prima di Augusto essi vengono menzionati solo una volta (Varrone de 1. 1. V 85). I fratres Arvales li conosciamo meglio solo per la nuova fondazione sotto Augusto e gli abbondanti ritrovamenti di atti di questo nuovo sacerdozio. Cfr. sopra vol. II pag. 1464. Anche i sodales Titii sono stati richiamati a nuova vita da Augusto, ma non sappiamo nemmeno quale dio servivano.
Da Augusto sembrano essere stati riorganizzati anche altri sacerdozi che amministravano i sacra di antiche città latine incorporate nello stato romano. Questi sacra occupavano originariamente una posizione intermedia fra i due procedimenti usuali per la sottomissione di una città, cioè il lasciare il culto sul posto ma sotto il controllo dei pontifices, e l’accoglimento degli dei della città distrutta fra gli dei statali romani.  Il culto delle vecchie città latine, tuttavia, fu certamente esercitato a Roma, ma da sacerdoti statali nominati appositamente, un fenomeno da ricondurre secondo Wissowa (op. cit. 520) alle antiche, strette relazioni sacrali di Roma con le città latine più vicine. Conosciamo altri sacerdozi latini, che sono i seguenti: i sacerdotes Laurentes Lavinates, Albani, Caeninenses, Cabenses e Suciniani. I nomi delle città da cui provengono gli ultimi due sono scomparsi. Per informazioni più dettagliate v. sotto i rispettivi lemmi. Fra questi sacerdozi i sacerdotes Lanuvini (v.) e Tusculani (v.) si distinguono per il fatto che qui si tratta di culti di comunità ancora esistenti, che quindi trovano una doppia amministrazione. Tutti questi sacerdozi li conosciamo solo dall’epoca imperiale, durante la quale essi facevano parte dei sacerdotia equestria ed erano subordinati ai pontifìces. Non si sa assolutamente nulla su come si provvedeva a questi sacra in epoca repubblicana. 
Per rianimare questi antichi sacerdozi avvennero in epoca imperiale alcune nuove fondazioni. Per prima cosa si resero necessari sacerdozi per l’esercizio del culto dell’imperatore. A tale scopo furono introdotti nel 14 d.C. i sodales Augustales, credendo con ciò di creare un’analogia con i sodales Titii, che secondo la concezione allora dominante erano stati destinati alla cura del culto di Tito Tazio (Tac. ann. I 54; hist. II 95). La stessa sodalità fu incaricata anche del culto di Claudio e si chiamò ora per intero sodales Augustales Claudiales. In modo simile furono introdotti i sodales Flaviales (dopo la morte di Tito, sodales Flaviales Titiales), Hadrianales e Antoniniani. Le testimonianze in iscrizioni sono numerose. Cfr. Wissowa op. cit. 564 seg. e l’articolo Sodales. Non abbiamo notizie di una società per il culto di Nerva e Traiano. Wissowa (565) crede a ragione di riconoscerli nei sodales Hadrianales, che devono essersi chiamati per intero sodales Cocceiani Ulpiales Hadrianales, mentre Dessau (Eph. ep. III 213) è dell’idea che essi non siano mai esistiti.
Eccetto queste società sorte con il fine del culto imperiale, solo un unico nuovo sacerdozio è stato creato in epoca imperiale, i pontifices Solis per il culto del Sol invictus, introdotto da Aureliano. Per distinguersi da loro, i vecchi pontifices si chiamarono ora pontifices Vestae o pontifices maiores. Cfr. Habel Commentationes in honorem Studemundi 99 segg. e l’articolo Pontifices.
C. Organizzazione. Nel numero dei sacerdoti osserviamo una differenza fra i collegi da una parte e le sodalità dall’altra. Poiché queste ultime dovevano eseguire solo singole azioni di culto che rimanevano sempre le stesse, anche il loro numero rimase sempre lo stesso. L’aumento del culto incrementò però il lavoro dei collegi così che il loro numero dovette essere ripetutamente aumentato. In quest’occasione i vecchi collegi dei pontifices e augures partirono dal numero più basso che poteva rappresentare un Collegium (Dig. L 16, 85), cioè da 3 (desumibile per Roma dalla Lex col. Gen. c. 67), per arrivare con l’aumento a 6 (Cic. de republ. II 26 Pompilius.... sacris .... pontifices quinque praefecit; a questo si aggiunge il re) e 9 (secondo la lex Ogulnia; cfr. Bardt Die Priester der vier großen Kollegien in römisch-republikanischer Zeit, Progr. Berlin 1871; erroneamente Liv. X 6, 6. 8, 3. 9, 2). Per gli auguri è certo soltanto che dalla lex Ogulnia erano 9. Prima ci saranno stati anche qui i numeri 3 e 6; cfr. sopra, vol. II pag. 2316 seg. Silla aumentò il numero dei posti di entrambi i collegi a 15 (Liv. per. LXXXIX) e li portò allo stesso numero dei Quindecimviri sacris faciundis. Cesare aggiunse ancora un sedicesimo posto (Cass. Dio XLII 51, 4). V. Domaszewski Abhandlungen zur römischen Religion 187 segg. ipotizza ulteriori aumenti in epoca imperiale. Ma cfr. Wissowa op. cit. 503, 4. 
Sul numero dei Quindecimviri sacris faciundis (2, 10, 15) e dei Septemviri Epulones (3, 7, 10) v. sopra.
Per le sodalità abbiamo i numeri 20 e 12. 20 membri hanno i Feziali (Varrone in Nonio p. 529), 12 i Fratres Arvales (Masurio Sabino in GelI. VII 7, 8; cfr. Plin. nat. hist. XVIII 6) come ognuno dei due gruppi di Salii (Dion. Hal. II 70, 1. Liv. I 20, 4. 27, 4), dalla cui unione poi la sodalità arriva a 24 membri (Dion. Hal. III 32, 4). Il numero dei membri dei sodales Titii e dei Luperci non sono pervenuti. Wissowa suppone 20 per i primi, analogamente ai Feziali (564, 6), 12 per ciascuna delle due parti dei Luperci analogamente ai Salii e ai fratres Arvales (559). Cfr. Arnob. V 1 e inoltre Preller-Jordan Röm. Myth. I 388, 3. 
Il numero dei sodales Augustales era di 21 (Tac. ann. I 54), ai quali si aggiunsero supra numerum membri della famiglia imperiale (Suet. Claud. 6). In seguito questi posti vennero occupati stabilmente e il numero dei membri innalzato a 28 (cfr. CIL VI 1984 e inoltre Dessau Eph. ep. III 206 seg.). I flamines e le virgines Vestales non hanno mai formato dei collegi, perciò non si possono classificare con i loro numeri nei sacerdozi summenzionati. Sul numero dei flamines v. sopra. Il numero delle virgines Vestales era originariamente di 4 (Dion. Hal. II 87, 1. III 67, 2. Plut. Numa 10), in seguito sempre 6. Solo nel tardo impero ne troviamo 7 (Ambros. Epist. I 18, 11. Expos. tot. mundi p. 120 Riese) e 10 (Lyd. de mens. fr. 6  p. 179,  27 W.).
Nei collegi dei pontifices e degli augures, così come tra le virgines Vestales, la presidenza era detenuta, a quanto pare, dal più vecchio d’età. Questo è sicuro per le vestali poiché Ovidio (fast. IV 639) definisce la virgo Vestalis maxima come quae natu maxima virgo est. Di conseguenza anche il titolo pontifex maximus sarà da intendere dipendente dall’età. Al pontifex maximus spetta contemporaneamente la guida di tutta la sacralità. Unico fra tutti i sacerdoti, egli ha auspicium e imperium (Mommsen St.-R. I 93, 1. II 20 seg.). Della presidenza nel collegio degli auguri non è stato tramandato nulla, ma dalla Numidia conosciamo l’augur maximus (CIL VIII 7103. Suppl. 20152; cfr. Cic. Cat. mai. 64). Là l’incarico è a tempo, cosa contraddetta dal titolo. Esso è dunque apparentemente mutuato da Roma. Cfr. Wissowa op. cit. 495, 1.
Nelle sodalità conosciamo solo il magister come capo, meglio di tutte nei fratres Arvales (v. sopra, vol. II pag. 1470), ma anche nei Salii (Val. Max. I 1, 9. Hist. aug. M. Aurel. 4, 4. CIL VI 2170) e nei Luperci (CIL X 6488. XIV 2105. Notiz. d. scavi 1898, 406). Parecchi (5 o 3) magistri li troviamo nei Quindecimviri sacris faciundis (cfr. CIL I² p. 29 e Mommsen Eph. ep. VIII p. 243) e nei Sodales Augustales Claudiales (CIL XIV 2388-2391 e Hülsen Eph. ep. IV p. 482 seg.). Tuttavia i quindecimviri hanno trasferito già nel primo impero la conduzione dei loro affari a un singolo magister Plin. nat. hist. XXVIII 12. CIL VI 32326 Z. 6. 32328 Z. 15. 32332 Z. 2.
Di altri funzionari dei sacerdozi conosciamo ancora il flamen dei fratres Arvales (v. sopra, vol. II pag. 1470) e anche il praesul (primo ballerino) e il vates (primo cantore) dei Salii (Hist. aug. M. Aurel. 4, 4. Fest. p. 270 M. Vict. vir. ill. 3. 9. Cfr. l’articolo Salii).
La supplenza di un magister impedito - e in modo analogo degli altri dignitari - avveniva attraverso il promagister, il cui titolo tuttavia non è promagister fratrum Arvalium, ma p. es. promag(ister) C. Iuni Mefitani (CIL VI 2060, 35. 41). Dal fatto che talvolta nello stesso anno compaiono due diversi promagistri, Wissowa (Religion 495 e sopra vol. II pag. 1470) trae la conclusione che il promagister fosse nominato non dalla sodalità ma dal magister stesso impedito. 
La nomina dei sacerdoti avviene o per cooptatio (cfr. sopra vol. IV p. 1208 segg.) o per captio (cfr. sopra vol. III p. 1509). Quest’ultima forma viene usata solo all’interno del collegio pontificale, ma non per i pontifices stessi, che nella loro totalità rappresentano solo una persona e si completano perciò con la cooptatio, bensì solo per il rex, i flamines e le vestali. Queste sono nominate dal pontifex maximus. Tuttavia questa forma è attestata solo per il flamen Dialis e le vestali (prove, sopra vol. III p. 1509), ma è presumibile anche per gli altri flamines e il rex. La captio avviene sulla base del potere imperiale del pontifex maximus e deve assolutamente essere accettata anche contro la volontà del prescelto (Liv. XXVII 8, 2 del flamen Dialis). Solo per le vestali sono validi determinati motivi per rifiutare l’ufficio (Gell. I 12, 5 seg.).
Tutti gli altri sacerdoti ricevono il loro ufficio con la cooptatio. Questa avveniva in modo che ogni membro del sacerdozio proponeva il nome di un candidato sotto giuramento di voler nominare solo il più degno. Questo procedimento si chiamava nominatio (v.). Quello che riuniva su di sé il maggior numero di voti veniva poi accolto dal presidente del Collegium (vera e propria cooptatio).
I due metodi di nomina sacerdotale hanno però avuto mutamenti nel corso del tempo. Nella captio il potere del pontifex maximus venne limitato con l’introduzione della nominatio; per la nomina di un rex o di un flamen il Collegium compilava una lista, nella quale venivano fatti i nomi dei candidati tra i quali il pontifex maximus doveva scegliere. Esempi: Liv. XL 42, 11, dove si deve leggere nominatus invece di inauguratus; Tac. ann. IV 16. Nella nomina delle vestali la riduzione avveniva in modo che il pontifex maximus nominava 20 fanciulle tra le quali ne veniva sorteggiata una (Gell. I 12, 11). Non sappiamo quando questo mutamento sia entrato nel procedimento. Gellio (op. cit.) lo riconduce a una Lex Papia, di cui non sappiamo stabilire l’epoca. Talvolta avveniva anche che fossero i genitori a offrire le loro figlie per il servizio di vestale (Gell. I 12, 12. Tac. ann. II 86. Suet. Oct. 31). 
Anche la cooptatio ha avuto un mutamento, trasformandosi da scelta ad opera dei sacerdoti in una presentazione (Cic. epist. ad Br. I 5, 3. 7, 1; Phil. II 4. XII 12 ecc.) che avveniva in una pubblica assemblea (Auct. ad Her. I 20), dove la vera e propria scelta era affidata al popolo. Già nell’anno 145 era stato fatto un vano tentativo in questa direzione (Cic. Lael. 96), ma solo nel 103 il procedimento era stato stabilito da un plebiscito del tribuno Cn. Domizio Enobarbo  (Cic. de leg. agr. II 18. Suet. Nero 2. Vell. Pat. II 12, 3). Però nell’elezione erano attive solo 17 tribù stabilite dalla sorte. Con questo si ottenne che, quanto al diritto pubblico, rimanesse il vecchio stato, cioè che i sacerdozi non fossero occupati attraverso un’elezione popolare, perché un’elezione ad opera della metà più piccola del popolo non è giuridicamente un’elezione popolare. D’altra parte, però, era stata concessa al popolo l’effettiva distribuzione dei posti sacerdotali. Cfr. Mommsen St.-R. II 19. La cooptatio venne allora a consistere solo nella nomina formale fatta dal capo del sacerdozio in questione. 
In epoca imperiale l’elezione dei sacerdoti avveniva in senato, come quella di tutti i funzionari (Tac. ann. III 19). Perciò la raccomandazione dell’imperatore era spesso decisiva. Cfr. G. Howe Fasti sacerdotum p. R. publicorum aetatis imperatoriae, Lipsiae 1904. 
Dopo la captio o la cooptatio avveniva l’insediamento del nuovo sacerdote nel suo incarico. Nella maggior parte dei casi ciò avveniva come semplice vocatio ad sacra ad opera del capo del sacerdozio. Avviene in modo solenne, come inauguratio, per il rex (Liv. XXVII 36, 5. XL 42, 8), per i grandi flamines (Gai. I 130. III 114. Ulp. reg. 10, 5. Liv. XXVII 8, 4. XLI 28, 7. XXIX 38, 6. XLV 15, 10. XXXVII 47, 8. Cic. Phil. II 110) e per gli augures (Liv. XXVII  36, 5. XXX 26, 10. XXXIII 44, 3. Cic. Brut. 1. Suet. Cal. 12). Per una inauguratio dei pontifices Marquardt (Röm. St.-V. III 230, 2) cita due passi, che però non sono affidabili: Liv. XXX 26, 10 si riferisce solo all’augure; Dion. Hal. II 73, 3 riporta l’inaugurazione del pontifex, ma questa testimonianza è così isolata rispetto a quelle, numerose, dell’inaugurazione dei sacerdoti suddetti da far nascere dubbi, tanto più che da II 22, 3 risulta chiara l’ignoranza dello scrittore nel campo delle inaugurazioni. Cfr. Wissowa Religion 490, 3. Marquardt crede anche (op. cit. 230, 9) di poter trarre conclusioni sulla inauguratio delle vestali dalla loro exauguratio, testimoniata da Catone in Fest. p. 241 M. e da Gell. VII 7, 4. Wissowa (op. cit.) gli ha obiettato a ragione che da Gai. I 130 e Ulp. reg. 10, 5 la inauguratio del flamen Dialis viene equiparata alla captio della virgo Vestalis. La deduzione dalla exauguratio alla inauguratio non è dunque giustificata. Ancor meno si può con Marquardt (op. cit. 230) leggere tra le righe una inauguratio dei Salii nel passo della Hist. aug. M. Aurel. 4, 4, dove c’è, è vero, l’espressione inauguravit, dove però l’azione viene fatta non dall’augur ma dal magister. Si intende dunque soltanto una vocatio ad sacra. Cfr. Mommsen St.-R. II 33. L’inauguratio è fatta dall’augure (Cic. Brut. 1; Phil. Il 110; de leg. II 20. Macr. Sat. III 13, 11). Un racconto completo ce lo fornisce Livio (I 18) sulla inauguratio di Numa, dove viene citata la formula dell’inaugurazione: Iuppiter pater, si est fas, hunc Numam Pompilium, cuius ego caput teneo, regem Romae esse, uti tu signa nobis certa acclarassis inter eos fines, quos feci. L’augure però non agisce autonomamente ma su ordine del pontifex maximus (Fest. p. 343 M.). Così capita che talvolta il pontifex maximus stesso venga indicato come quello da inaugurare (Liv. XL 42, 8. 10. XXVII8, 4). Mommsen (op. cit. II 35 seg.) pensa di concludere da ciò che è il pontifex maximus quello che compie l’inauguratio con l’assistenza degli auguri, la cui importanza è poco a poco cresciuta. Questa opinione è seguita anche da Marquardt (op. cit. 231); ma avverso essa cfr. H. Oldenberg De inauguratione sacerdotum Romanorum in Commentationes philologicae in honorem Mommseni 159. L’inauguratio per rex e flamines avviene secondo Gell. XV 27, 1 nei comitia calata, dunque in presenza del popolo, per gli augures probabilmente solo pro collegio. Manifestamente sbagliata è l’indicazione di Dion. Hal. II 22, 3 che tutti i sacerdoti vengono inaugurati nei comizi curiati. L’importanza dell’inaugurazione consiste nel fatto che gli dei vengono richiesti se il nuovo sacerdote è loro gradito (cfr. la formula riportata sopra). La dignità sacerdotale passa però già con l’elezione al nuovo entrato (così Mommsen op. cit. II 31, 1 e Wissowa op. cit. 490, 4). Lo mostra Liv. XL 42, 8 segg., dove il rex sacrorum viene punito dal pontifex maximus già prima della inauguratio, cosa impossibile se egli non fosse ancora sacerdote. Diversamente Oldenberg op. cit. 161. Cfr. l’articolo Inauguratio.
La dignità sacerdotale è conferita a vita e non può essere tolta. Essa si perde, eccetto che per gli augures (Plut. qu. Rom. 99. Plin. epist. IV 8, 1) e i fratres Arvales (Plin. nat. hist. XVIII 6), solo per una condanna penale con la perdita dei  diritti civili (Plut. qu. Rom. 99. Cic. Brut. 127; cfr. Lex col. Gen. c. 67). Inoltre, ogni membro del collegio pontificale può essere costretto alle dimissioni dal pontifex maximus per gravi offese all’ordinamento sacrale (Val. Max. I 1, 4 seg. Liv. XXVI 23, 8. Plut. Mare. 5). Una rinuncia volontaria alla dignità sacerdotale la conosciamo solo per i Salii che entrano in un altro sacerdozio (cfr. le liste dei membri CIL VI 1977 segg. e l’articolo Salii), e per le vestali che possono dimettersi dopo un periodo di servizio di trent’anni (Dion. Hal. II 67, 2. Plut. Numa 10. Gell. VII 7, 4 ecc.).
Premessa per ricoprire la dignità sacerdotale sono integrità fisica (Dion. Hal. 11 21, 3. Seneca contr. IV 2. Gell. 1 12, 3; cfr. Fronto p. 149 Nab. Una piaga impedisce all’augure il servizio, Plut. qu. Rom. 73), possesso dei diritti civili (Plut. qu. Rom. 99. Cic. Brut. 127; cfr. Lex col. Gen. c. 67), possesso del diritto del cittadino (Cic. pro Balbo 25), essere nato libero; solo fra i Luperci si trovano dei liberti nel periodo dei torbidi prima della riforma augustea (CIL VI 1933. X 6488. Notiz. d. scavi 1898, 406). Augusto accettò tra le vestali anche le figlie di liberti (Cass. Dio LV 22, 5)  contrariamente alla norma tramandata da Gellio (I 12, 4). Solo per le vestali era prescritta una determinata età: per assumere la carica esse dovevano avere come minimo 6 anni e al massimo 10 (Gell. I 12. l). Anche nei Salii furono presi dei giovani, come è espressamente testimoniato (Dion. Hal. 11 70, 1. 71, 2. Cfr. CIL VI 1439. IX 4855. Hist. aug. M. Aurel. 4, 2) e risulta anche dalla norma che essi, come le vestali, devono essere άμφιθαλεĩς (vestali: Gell. I 12, 2. Salii: Dion. Hal. II 71, 4).
Tutti gli altri sacerdozi, nel vecchio stato che privilegiava i casati nobili, hanno probabilmente preteso una discendenza patrizia come premessa per l’assunzione. Per le vestali, però, questo non è attestato, tuttavia la vecchissima concezione delle vestali come mogli dei pontifices richiede assolutamente delle donne patrizie. Diversamente Mommsen Röm. Forsch. I 79 seg., che intende ancora le vestali come una sorta di figlie dei pontifices, e Jordan  Tempel der Vesta 84 seg., che le ritiene di origine più recente. Anche la pretesa che la vestale dovesse essere patrima et matrima, parla a favore di un’origine patrizia; cfr. Serv. Georg. I 31. Sono rimasti sempre patrizi il rex, i tre grandi flamines, ai quali si aggiungono poi i flamines divorum, e i Salii (Cic. de domo 38. Liv. VI 41, 9; per i Salii cfr. Dion. Hal. II 70, 1. Lucan. IX 479. CIL IX 1123; per i flamines divorum cfr. Dessau Eph. ep. III p. 223 segg. Howe Fasti sacerdotum 3 seg.). I plebei ottengono l’accesso ai sacerdozi con la Lex Ogulnia dell’anno 300, con la quale cinque dei 9 posti del pontificato e dell’augurato vennero riservati ai plebei, un numero che con l’aumento del numero dei membri a 15 è stato probabilmente aumentato a 8. Cfr. l’elenco dei pontifices in Cic. de har. resp. 12 e su questo Mommsen op. cit. 88 segg. 
In epoca imperiale il mutamento si fa sentire nell’organizzazione corporativa di Roma anche nella distribuzione dei sacerdozi. Con uomini di rango senatorio vengono occupati i quattro grandi collegi e le sodalità, compresa quella per il culto dell’imperatore, ma senza i Luperci che, con i pontifices minores, flamines minores, tubicines e gli antichi culti municipali, spettano ai cavalieri (senatorii Laurentes Larinates CIL V 7782. VIII 5349. 7978). Cfr. Mommsen St.-R. III 567 segg.
D. Posizione dei sacerdozi fra loro e rispetto alla magistratura.
I sacerdozi non hanno tra loro una gerarchia fissa. Certamente c’era un vecchio ordo sacerdotum (Fest. p. 185 M.), che però comprende solo pochi sacerdoti, cioè rex, flamen Dialis, Martialis, Quirinalis, pontifex maximus. Questa successione risulta dai culti divini da loro rappresentati: Giano, Giove, Marte, Quirino, Vesta. Infatti qui dobbiamo intendere il pontifex maximus come rappresentante delle vestali e non come gran sacerdote. Anche per gli altri flamines esisteva una speciale gerarchia che però non possiamo più stabilire. Sappiamo solo che il flamen Pomonalis occupava l’ultimo posto (Fest. p. 154 M.). In seguito, quando i pontifices, augures, quindecimviri ed epulones furono eletti dal popolo, si formò per loro il concetto dei quattuor amplissima collegia (Mon. Anc. II.17). Solo l’elezione popolare è stata decisiva per questa riunione. Altrimenti i vecchissimi feziali sarebbero stati sicuramente inclusi prima dei recenti VIIviri epulones (cfr. Mommsen op. cit. II 20, 1). Questi quattro collegi continuarono ad essere anche in epoca imperiale allo stesso livello. Nessuno poteva rivestire contemporaneamente due di questi sacerdozi. Insieme con loro vengono chiamati per le azioni sacrali più importanti anche i sodales Augustales, ma solo honoris causa (Tac. ann. III 64. Cass. Dio LVIII 12, 5). Essi non sono equiparati giuridicamente. Ciò risulta dal fatto che gli appartenenti a questa sodalità possono appartenere contemporaneamente anche a uno dei quattro collegi. Cfr. Dessau Eph. ep. II p. 209. Abbiamo un sodalis Augustalis come pontifex: CIL XIV 3608. V 531. III 6073, come VIIvir epul. CIL III 550. VI 1511. V 6977 segg., come XVvir sacris faciundis Suet. Galba 8, come augure CIL X 3883. III 2974.
Fra gli altri sacerdozi i Feziali occupano il primo posto; tuttavia è sbagliato il tentativo di equipararli ai grandi collegi sacerdotali (Tac. ann. III 64). Gli altri sacerdozi non hanno una stabile relazione di grado fra loro, ma i Luperci stanno molto dietro agli altri. Di loro fanno parte alla fine della repubblica persone di basso ceto (CIL VI 1933. 32437. X 6488. XIV 2105. Notiz. d. scavi 1898, 406. Sul loro scarso credito cfr. Cic. Phil. II 85 seg. III 12. Cass. Dio XLV 30. Cic. pro Cael. 26). Augusto assegna questo sacerdozio ai cavalieri (v. sopra). 
In certe circostanze era lecita la riunione di parecchi sacerdozi in una sola mano (cumulatio). Era proibito rivestire contemporaneamente due sacerdozi appartenenti al collegio pontificale. Rara è anche l’appartenenza contemporanea a due dei grandi collegi. Si trova solo occasionalmente in epoca più antica (Liv. XXIX 38, 7: augur e Xvir sacris faciundis. XXX 26, 10; cfr. su questo CIL I² p. 193 elog. XIII: pontifex e augur. Liv. XL 42, 11: pontifex maximus e Xvir sacris faciundis). Livio è incerto X 9, 2 (cfr. Hülsen Beitr. z. alt. Gesch. II 1902, 275). XXVII 6, 15. 16. XLI 21, 8 (cfr. Bardt op. cit. 19). Cesare fu contemporaneamente pontifex maximus e augur (Cass. Dio XLII 51, 4). In epoca imperiale si trova l’appartenenza a due dei grandi collegi, a prescindere dalla famiglia imperiale, solo nel III secolo CIL X 5398 dell’anno 214 (pontifex e augur), CIL X VI 1417 dell’anno 271 (augur e XVvir sacris faciundis). Cfr. Dessau Eph. ep. III p. 208 seg. Howe op. cit.  11. Nella lotta mortale della religione romana i suoi antesignani assumono poi un’intera serie di sacerdozi. Cfr. Wissowa Religion 98.
Occasionalmente si trova l’unione della dignità di rex con l’augurato CIL XIV 3604; cfr. VI 2123. Per l’unione dei grandi flaminati con altri uffici sacerdotali non vi sono testimonianze sicure. Cfr. Wissowa op. cit. 493, 7.
Le cose andavano altrimenti con le sodalità che spesso avevano tra i loro membri appartenenti ai collegi. Le testimonianze sono numerose, un buon numero in Wissowa op. cit. 493, 4 seg. Solo la dignità di Salio non si trova mai cumulata con altre, al contrario, chi assumeva un altro sacerdozio doveva dimettersi dalla sodalità. Anche gli imperatori non ne hanno mai fatto parte. Allo stesso modo, come si poteva appartenere contemporaneamente a sodalità e Collegium, era possibile essere contemporaneamente membri in parecchie sodalità. Cfr. Wissowa op. cit.  6. 
I sacerdoti romani stanno a sé, come qualcosa di separato rispetto ai funzionari. Ambedue si dividono negli obblighi sacrali dello stato. Azioni di culto straordinarie e istituzioni di nuovi culti competono al potere statale, mentre i sacerdozi devono occuparsi del culto. Se sembrano esserci due eccezioni, esse trovano però un’altra spiegazione. Il sacrificio dei nuovi funzionari incaricati viene regolarmente eseguito da loro stessi. Tuttavia esso non fa parte del culto abituale ma è solo un’azione di culto che si ripete regolarmente, a sé stante, da considerare perciò straordinaria. Nel sacrificio ad Ercole, inoltre, abbiamo un vecchio culto gentilizio che solo nel 312 è stato trasferito al praetor urbanus da Ap. Claudio Cieco. Cfr. Mommsen St.-R. II 18, 1.
Come sacerdozio e magistratura si oppongono per le loro funzioni, così anche i sacerdozi non si possono inserire nella serie degli uffici dei magistrati. Nel cursus honorum i due vengono perciò registrati separatamente l’uno accanto all’altra, p. es. CIL VI 1293. 1310. 3226. XI 1828 seg. ecc. Che in epoca repubblicana gli honores fossero valutati di più, risulta dal fatto che essi precedono i sacerdozi, anzi, questi ultimi non vengono nemmeno riportati su alcuni antichi monumenti, p. es. nelle iscrizioni tombali degli Scipioni CIL VI 1284 segg. Cfr. Mommsen St.-R. II 19, 4. Invece in epoca imperiale i sacerdozi precedono le magistrature quanto al credito: pontifex maximus è il titolo più apprezzato, Tac. hist. I 77. Suet. Vitell. 5. Sen. de ira III 31, 2. Plin. ep. ad Trai. 13. Hist. aug. Aurel. 49, 6. Cfr. Mommsen op. cit. II 20.
Poiché i sacerdozi sono sorti attraverso un distacco dalla magistratura, si dovrebbe supporre che non fosse permessa un’unione dei due istituti. Tuttavia si è tenuto conto di questo principio solo in pochissimi casi. Esso vale in tutto il suo rigore solo per il rex sacrorum (Dion. Hal. IV 74, 4. Plut. qu. Rom. 63). Presumibilmente si è evitato di trasferire un qualunque potere secolare a un uomo che portava il titolo di rex. Nel 180 a.C. fu fatto un tentativo di infrangere questo principio, ma invano (Liv. XL 42, 8 segg.). Solo all’epoca di Traiano troviamo un consul augur rex sacr. CIL XIV 3604. Cfr. CIL IX 2847. Lo stesso principio valeva in origine anche per il flamen Dialis (Liv. IV 54, 7. Plut. qu. Rom. 113). In seguito gli è stato permesso di rivestire incarichi cittadini. Lo troviamo come edile (Liv. XXXI 50, 7), come pretore (Liv. XXXIX 39. 45), come console (ma nel periodo rivoluzionario, Vell. II 20, inoltre Tac. ann. III 58). Gli era preclusa un’attività fuori di Roma perché poteva rimanere lontano da Roma solo per 1-3 notti - la tradizione è incerta -  e non poteva salire a cavallo e vedere un esercito in armi. Testimonianze v. sopra vol. VI pag. 2488 seg. Non si sa se originariamente anche gli altri grandi flamini non potessero rivestire alcuna carica. Cfr. Mommsen St.-R. I 491. In seguito poterono assumere incarichi, ma sono spesso stati impediti da un veto del pontifex maximus di allontanarsi dai sacra; tuttavia in epoca imperiale hanno spesso avuto province. Testimonianze v. vol. VI  pag. 2490.
Agli altri sacerdoti non si impediva di rivestire anche altri uffici. Tuttavia il pontifex maximus ha rifiutato fino all’anno 131 (Liv. per. L1X) di rivestire un incarico fuori dall’Italia per poter soddisfare i suoi doveri sacri (Liv. XXVIII 38, 12. 44, 11. Cass. Dio fr. 56, 63 Melb. Diod. XXYI1 3. Plut. Tib. Gracch. 21).
E. Diritti civili, insegna, dotazione. I diritti civili dei sacerdoti risultano principalmente dal loro carattere di funzionari. Come tali essi hanno lo ius contionandi et edicendi (CIL VI 32323 Z. 26 segg. Paul. p. 38) e lo ius in senatu dicendi (CIL VI 32326 Z. 5 seg. Cfr. Mommsen St.-R. III 959). Al servizio degli dei o ai giochi essi portavano la toga praetexta (Liv. XXXV 7, 2. XXXVIII 42, 1. XXVII 37, 13. Cfr. Mommsen St.-R. I 406) però non, come i funzionari, in ogni comparsa pubblica, ma solo finché esercitavano le funzioni sacerdotali (Lex col. Gen. c. 66. Sui fratres arvales cfr. Henzen Acta fr. Arv. p. 14. 24 segg.). Solo il flamen Dialis compare sempre in toga praetexta  (Serv. Aen. VIIl 552); essa è confezionata con un doppio tessuto di lana ed ha il nome di laena (Serv. Aen. IV 262 seg.; cfr. Suet. fr. 167 Reiff. Lo stesso vestito viene menzionato per il flamen carmentalis da Cic. Br. 56). I sacerdoti portano naturalmente la veste prescritta per loro. Per gli auguri e i Salii essa è la trabea purpurea (Serv. Aen. VII 612. Dion. Hal. II 70, 2; cfr. Wissowa Religion 499, 1), per la flaminica il ricinium (Varro de l. l. V 133), chiamato anche rica (Fest. p. 277 M. Paul. p. 288). Le vestali, per le quali non si può parlare di vestito da funzionari, indossano le vesti tipiche di donna sposata (v. sopra).
Quanto al copricapo, i sacerdoti divergono dai funzionari che sono soliti andare a testa scoperta; cfr. Mommsen op. cit. I 411. Durante il sacrificio essi portano un berretto conico, il galerus (v. vol. VII pag. 601), detto anche albogalerus (vol. I pag. 1329 seg.), pileus, tutulus, che nel flamen Dialis è incoronato ancora da un rialzo appuntito, l’apex (v. vol. I pag. 2699 seg.). Cfr. anche Samter (Philol. N. F. VII 1894, 535 segg. e vol. VI pag. 2487 seg.), che vuole attribuire al copricapo un significato lustrale. Ma Wissowa op. cit. 499, 6 è contrario.
Come le autorità municipali, anche i sacerdoti avevano posti riservati per i giochi pubblici. Arnob. IV 35. CIL XII 6038, 5. VI 2059, 25 segg.; cfr. Mommsen op. cit. I 390.
I sacerdoti facevano uso molto vasto dello ius publice epulandi, cioè del diritto di banchettare a spese dello stato nelle festività del loro dio. Parecchie testimonianze soprattutto per l’abbondanza di queste epulae in Wissowa op. cit. 500, 2. 
Un importante privilegio è la vacatio militiae munerisque publici (Lex col. Gen. c. 66 e su ciò Mommsen (Ges. Schr. I 249 seg.). Queste esenzioni valgono per tutti i sacerdozi, anche per i S. Lanuvini (CIL IX 4206 segg. 4311) e Caeninenses (CIL X 3704). La vacatio militiae vale extra tumultum Gallicum Italicumque (Plut. Cam. 41. Cic. Phil. V 53). Non è certo da quali munera i sacerdoti erano esentati, come mostrano Cic. Br. 117. Dig. IV 8, 32, 4. 
I sacerdoti si distinguono dai magistrati anche per il fatto che essi, ad eccezione del flamen Dialis, non avevano seggio in senato (Liv. XXVII 8, 8. Serv. Aen. VIII 552. Plut. qu. Rom. 113).
Insegne ufficiali le conosciamo solo nei fratelli arvali, la corona di spighe tenuta insieme da  fasce bianche. Plin. nat. hist. XVIII 6. Gell. VII 7, 8; cfr. Henzen Acta p. 28. Come stemmi adatti c’erano per gli auguri il lituus, per i Salii l’ancile, per i Quindecimviri il tripode, ma non si può stabilire se il loro uso era ufficiale. In epoca imperiale si trovano sulle monete i seguenti emblemi sacerdotali: simpuvium, aspergillum, urceus, lituus, secespita, apex, securis, bucranium (cfr. Habel Philol. N. F. V 351 segg.), patera. Su queste singole insegne cfr. i lemmi corrispondenti, sui raggruppamenti Habel De pontificum Rom. condicione publica (Bresl. phil. Abh. III) 66 ff.
Il pagamento dei sacerdoti avviene in parte dalle entrate che derivavano dai terreni dei templi (Dion. Hal. II 7), in parte in denaro (Liv. 1 20 vestali, Fest. ep. p. 49 Dion. Hal. II 63 curiones). A offerte in denaro fanno pensare anche i commoda menzionati da Suet. Aug. 31 sacerdotum et numerum et dignitatem, sed et commoda auxit, maxime Vestalium virginum. Cfr. Mommsen St.-R II 59 segg.
F. Personale ausiliario. Secondo Dion. Hal. II 22,1 (Romolo τάς τε γυναĩκας έταξε των ίερέων τοϊς έαυτών άνδράσι συνιεράσθαι) l’istituzione originaria era tale che non solo il sacerdote, ma anche tutta la sua casa serviva la divinità. Perciò il più antico personale ausiliario del sacerdote  fu formato dai suoi familiari. Lo vediamo ancora nell’attività delle mogli del rex sacrorum e del flamen Dialis che partecipavano al culto come regina e flaminica, e anche nell’impiego di pueri et puellae ingenui patrimi matrimique per servizi da chierici. Essi danno una mano nelle azioni di culto e nei pasti (Liv. XXXV11 3, 7. Tac. Hist. IV 53. Henzen Acta 12 seg. Altre attestazioni v. articolo Patrimi et matrimi). Al servizio del flamen Dialis e della flaminica questi giovani aiutanti portano il nome di camilli e camillae, v. vol. III p. 1431 seg. Questi pueri et puellae saranno originariamente stati i figli e le figlie dei sacerdoti; quando poi essi non bastarono più, se ne sono impiegati altri, tenendo però in considerazione in prima istanza sempre i figli dei sacerdoti. E’ un’ovvia supposizione che i sacerdozi si siano completati di preferenza con questi fanciulli che per il loro servizio avevano una profonda pratica del rituale. Cfr. Marquardt Rom. St.-V. III 229 seg.
Oltre a questi aiutanti di nobile nascita si trova anche una fitta schiera di sottofunzionari, gli apparitores, che sono divisi in singole classi (un apparitor pontifìcum senza ulteriori indicazioni CIL VI 2196). Sono i seguenti:
1. Calatores. A ogni sacerdote è assegnato un calator per il suo servizio personale (Mommsen St-R. I 344) che viene da lui nominato dal novero dei suoi liberti. Suet. gramm. 12. Henzen Acta p. VII seg. Giunsero ad essere grandemente considerati i calatores pontificum et flaminum; da loro provenivano i pontifices minores (v.). Sui calatores cfr. vol. III pag. 1335 seg.
2. Viatores. Sono attestati per gli auguri (CIL VI 1847. Dessau 4977), quindecimviri (CIL XVI 2940), epulones (CIL VI 2194) e sodales Augustales (CIL XIV 3647). Si possono sicuramente suppore anche per i pontifices. Cfr. l’articolo Viatores.
3. Lictores. Non appartengono ai singoli sacerdozi ma formano tra loro la decuria lictorum curiatia, quae sacris publicis apparet (CIL XIV 296). Entrano in attività solo nei sacrifici di stato. Soltanto il Flamen Dialis  e le virgines Vestales sono accompagnati da un lictor in ogni comparsa (Paul. p. 93. Plut. qu. Rom. 113. Ovid. fast. II 23. CIL XII 6038 Z. 2. - Plut. Numa 10. Cass. Dio XLVII 19, 4. Sen. contr. I 2, 3).
4. Victimarii, per esteso CIL VI 971: collegi(um) victimariorum qui ipsi (sc. imperatori) et sacerdotibus et magistr(atibus) et senatui apparent. Cfr. Mommsen St.-R. I 351. Questo collegium offre il vero e proprio personale per i sacrifici, cioè popae (v.), cultrarii (v. vol. IV pag. 1753) ecc., che eseguono la mecellazione dell’animale. 
5. Tibicines et fìdicines, per esteso collegium tibicinum et fìdicinum, qui sacris publicis praesto sunt (CIL VI 2191), anche collegium symphoniacorum, qui sacris publicis praesto sunt (CIL VI 2193). Il loro compito era l’accompagnamento musicale durante i sacrifici. Cfr. vol. VI pag. 2286 e l’articolo Tibicines. Un gran numero di loro, che collaborò con i Salii al Tubilustrium, ha avuto uno speciale sviluppo ed è divenuto sotto il nome tubicines sacrorum populi Romani un sacerdozio speciale che in epoca imperiale faceva parte di quelli equestri (Varrone de l. l. V 117. Fest. p. 352 M. Mommsen St.-R. III 567 seg. Howe op. cit.  74). Cfr. articolo Tubicines.
[6. Praecones.] L’esistenza di praecones sacerdotali si potrebbe leggere tra le righe in Paul. p. 38. Suet. Claud. 21 ecc., ma è incerta. Cfr. Wissowa Religion 497, 8 e l’articolo Praecones.
Oltre a questi sottofunzionari sono usati durante il culto anche i servi publici. Poco a poco l’attività dei patrimi et matrimi (v.) passa a loro. Tuttavia essi furono usati soprattutto per la registrazione dei verbali (CIL VI 2105, 18. 2103, 4. 11. 2104 b 30. 2312. 2319), il recapito di lettere (CIL VI 2120. 2195) e l’amministrazione delle casse (Symm. epist. I 68. CIL VI 2197). 
Oltre ai comuni assistenti sacerdotali, il collegio pontificale ha a disposizione come aiutanti speciali anche i fictores, strufertarii e praeciae. Ulteriori informazioni negli articoli corrispondenti. A questi appartiene probabilmente anche il sacerdos virginum Vestalium (CIL VI 2150) (così Wissowa op. cit. 519, 1, mentre Mommsen lo annovera fra i victimarii,  CIL VI 2137). 
G. I singoli sacerdozi.
I vecchi sacerdozi romani hanno tutti nomi individuali. Essi vengono perciò trattati in articoli propri ai quali si è già rimandato. Qui si devono trattare ancora i pochi sacerdozi, in parte di tipo subordinato, in parte di origine greca, che nella loro denominazione ufficiale si chiamano S. 
1. S. bidentales. Devono offrire la vittima espiatoria nel Bidental, cioè nel luogo dove un fulmine era entrato in terra. Sono dimostrabili solo dall’epoca degli Antonini. Prima il loro compito spettava agli aruspici. Cfr. vol. III pag. 434 seg. 
2. Sacerdos confarreationum et diffarreationum CIL X 6662 (Anzio, epoca imperiale). Nel matrimonio è presente altrimenti il pontifex maximus. Cfr. vol. IV pag. 862. 
3. Sacerdos virginum Vestalium. CIL VI 2150: D. Licinius D. I. Astragalus sacerdos virginum Vestalium. Un liberto può far parte solo del personale ausiliario (v. sopra).
4. S. sacrae urbis, CIL VI 2136 seg. Su un’iscrizione onoraria per una virgo Vestalis maxima. Secondo Mommsen identica alla precedente. 
5. S. Bonae Deae CIL VI 2236 seg. 2240. 3246 seg. Le donne che compivano il servizio nei sanatori sacri della Bona Dea. Cfr. vol. III pag. 686 segg. VI pag. 2054 segg.
6. S. publicae Cereris p. R. Q. (Siculae) CIL 2181 seg. 32443. Manca l’ultima parola 2182. Partecipavano probabilmente alla festa segreta di Cerere. Cfr. vol. III pag. 1978.
II. Altri sacerdozi romani.
Oltre ai S. publici populi Romani Quiritium c’erano a Roma anche le seguenti persone incaricate di compiti sacri: 
A. Curiones. Il curio era il capo della curia e doveva rappresentarla in tutti gli affari politici e sacrali. Al suo fianco c’era il flamen curialis (Fest. in Paul. p. 64 M. CIL VIII 2596. 14683). In epoca storica l’importanza politica dei curiones è andata del tutto perduta, si è mantenuta solo quella sacrale. In epoca imperiale facevano parte del ceto equestre. Cfr. vol. IV pag. 1836 segg.
B. Tribuni celerum. Sono in origine comandanti di cavalleria, rinnovati da Augusto per scopi sacrali. Cfr. v. Premerstein Festschrift f. Benndorf 261 segg. e l’articolo Tribuni celerum.
C. Haruspices. Non hanno mai fatto parte dei S. publici p. R. Q., nonostante ciò sono stati di grande importanza per la religione romana. Sono rappresentanti di una disciplina etrusca che si estende all’esame dei visceri, alla dottrina dei fulmini e all’interpretazione degli ostenta. Tuttavia non formano un sacerdozio romano permanente, ma sono chiamati dall’Etruria da caso a caso. Non sono vincolati alla dottrina di determinati libri come i Quindecimviri, non spingono mai per l’introduzione di nuovi culti, ma mostrano soltanto i mezzi d’espiazione dentro la religione romana. Sebbene non siano mai stati sacerdoti statali, il senato provvide affinché la loro dottrina avesse sempre dei rappresentanti (Cic. de div. I 92). Sotto Claudio furono sottoposti al controllo del collegio pontificale. Cfr. vol. VII pag. 2431.
D. Diversi collegia, come il collegium Capitolinorum, che allestisce i ludi Capitolini (cfr. vol. III pag. 384), i collegia compitalicia per il culto dei lares compitales (vol. III pag. 385), il collegium mercatorum, detto anche Mercuriales, per il culto di Mercurio, dio del commercio (vol. III pag. 384), e infine il collegium per l’allestimento dei ludi Victoriae Caesaris (Cass. Dio XLV 6, 4. Suet. Aug. 10; cfr. Wissowa op. cit. 292).
E. I sacerdoti di culti orientali. Il culto degli dei orientali venne esercitato per lo più da stranieri che erano immigrati con il dio. Un’unione di questi culti fra loro o una fusione con quelli romani non ha mai avuto luogo. Questi sacerdozi sono organizzati in modo del tutto diverso da quelli romani. Cfr. gli articoli Gallos, Bellonarii, Isis, Dea Suria, Mithras.

III. Sacerdotes municipales.

Le denominazioni dei sacerdoti nei municipi sono generalmente le stesse di Roma e per lo più trasferite da lì. Solo in alcune città latine, nelle quali già in epoca antica compaiono le denominazioni sacerdotali romane, dovremo supporre che essi fossero originari tanto lì come a Roma e pertanto da aggiungere al patrimonio comune latino. Di questa schiera fanno parte i pontifices a Preneste (Serv. Aen. VII 678), Tivoli (CIL XIV 3650. 3674. 4258) e Ostia (CIL XIV 47. 324 ecc.; cfr. p. 5), il rex sacrorum a Tuscolo (CIL XIV 2634) e Velletri (CIL X 8417), il flamen Dialis a Tivoli (CIL XIV 3586), il flamen Martialis ad Ariccia (CIL XIV 2169) le virgines Vestales a Tivoli (CIL. XIV 3677 3679. 3679 a). Anche nei sacerdotia latini menzionati sopra, diventati romani, troviamo dei pontifices; numerose testimonianze in Wissowa op. cit. 520, 4. 8. 521, 3.
La più frequente denominazione dei sacerdoti municipali è S. (cfr. gli indices al CIL). Tuttavia essi erano solo sacerdoti di singole divinità i cui nomi vengono spessi aggiunti, come S. Aesculapii (CIL VIII 10618), Apollinis (CIL X 3716. XIV 4254), Liberi (CIL VIII 1337 ecc. IX 2251), Mercurii (CIL XII 2340, Iovia Veneria (CIL X 1207) ecc.
L’amministrazione delle faccende sacerdotali generali era nelle mani dei pontifices e degli augures, che, egualmente, troviamo ovunque (cfr. gli indices al CIL). 
I flamines appartengono al culto dell’imperatore, cfr. Geiger De sacerdotibus Augustorum municipalibus. Diss. Hal. 1913, 21 segg.
Le singole denominazioni dei sacerdoti non sono certamente così ben distinte come potrebbe sembrare secondo quanto detto precedentemente, anzi esse passano spesso l’una nell’altra. Così troviamo in Gallia il culto di singoli dei esercitato da flamines. Abbiamo il flamen iuventutis (CIL XII 1783. 1869 ecc.) e il flamen Martis (CIL XII 1899. 2236 ecc.).
Troviamo anche pontifices incaricati del culto di singoli dei, come il p. Flavialis (CIL VI 1690f.), il p. Palatualis (CIL VIII 10500. XI 5021) e il p. Herculis (CIL VI 30893).
Delle sodalità si trovano nei municipi solo i Salii, e precisamente a Sagunto (CIL 3853 seg. 3859. 3864 seg.), Verona (CIL V 4492), Ticino (CIL V 6431), Opitergium (CIL V1978), Padova (CIL V 2851), Anagni (CIL X 5925 seg.), Tivoli (CIL XIV 3601. 3609 ecc.).
Nel culto dell’imperatore la denominazione sacerdos si trova quasi solo per sacerdotesse. I pochi passi per i sacerdoti sono raccolti da Geiger op. cit. 4. Per i sacerdoti c’è, oltre a flamen, anche la denominazione pontifex, e precisamente nella Betica e nelle sue immediate vicinanze, CIL II 1663. 2038 segg. 2115. 5120. 3262. 3350.
Caratteristiche per i sacerdozi municipali sono le denominazioni aedilis e praetor che compaiono a Ostia (CIL XIV 3. 351. 349. 390 ecc.) e anche antistes o antistita (CIL XII 708. 703. IX 2632. III 1095. V 523). Occasionalmente si trovano praefectus sacris faciundis (Ficulea CIL XTV 4002), praefectus rebus divinis (Teano CIL X 4797), praefectus sacrorum (Tuscolo CIL XIV 2580).
La nomina dei sacerdoti avveniva per elezione da parte dei decuriones che rappresentavano il senato romano. Cfr. vol. IV pag. 2319 segg. Ciò è dimostrato da numerose iscrizioni, p. es. CIL II 5488. III 753. 1822. V 5239. X 1074. 3920. I cittadini danno la loro approvazione CIL VIII 698. I decuriones si debbono intendere anche come senato in Primigenia (CIL XIV 3003).
I sacerdoti municipali sembrano aver ricevuto il loro incarico non a vita, come quelli romani, ma solo per un anno. Ciò risulta da denominazioni come sacerdos annua (CIL. II 3279), flamen bis (CIL II 34. 3864 seg.), flamen Augusti iterum (CIL X 7518) ecc. Le denominazioni sacerdos perpetuus, flamen perpetuus ecc. sembrano in contraddizione con ciò, ma Geiger ha dimostrato con sicurezza, almeno per l’Africa, che la denominazione flamen perpetuus indica là solo la durata del titolo e non quella dell’ufficio. Nelle altre province sembra essere stata la stessa cosa. Cfr. Geiger op. cit. 46 segg. e la bibliografia lì citata. 
I Pontifices e gli augures sono stati organizzati anche nei municipi in collegi la cui forza era tuttavia diversa. Troviamo 4 pontifices e 3 augures a Thamugadi (CIL VIII 2403), 2 auguri a Signia (CIL X 5961), 10 auguri e 6 pontifìces a Capua (Cic. de leg. agr. II 35. 96).
Sui sacerdoti municipali in generale cfr. H. Herbst De sacerdotiis Romanorum. muni-cipalibus. Diss. Hal. 1883.
IV. Sacerdotes  provinciales.

Si trovano solo nel culto dell’imperatore al quale essi attendono nei santuari provinciali. Essi hanno il titolo di flamen (prevalentemente in Spagna, Narbonense, province alpine, cfr. gli indices a CIL II. V. XII), sacerdos (prevalentemente in Lugdunense, Africa e territorio danubiano) o άρχιερεύς (province greche, v. vol. II pag. 471 segg.). Accanto al sacerdote maschio c’è sua moglie, come è dimostrato per Narbona da CIL XII 6038 Z. 6 segg. I sacerdoti provinciali erano, per quanto ne sappiamo, cittadini romani con un’unica eccezione (CIL II 473). Essi sono nominati per un anno ex consensu provinciae. Non è certo se li abbia eletti la dieta provinciale stessa o abbia solo confermato quelli nominati altrove. 
Un diritto civile particolarmente appariscente compete al flamen di Narbona quando si ritira: può farsi fare una statua con l’iscrizione del suo nome e di quello di suo padre, del suo luogo natale e dell’anno del suo incarico (CIL XII 6038 Z. 11 segg.).
Cfr. sui sacerdoti provinciali Hirschfeld Zur Geschichte des römischen Kaiserkultes S.-Ber. Akad. Berl. 1888, 847 = K1. Schrift. 488 segg. Marquardt Röm. St.-V. I 504 segg. Toutain Les cultes païens dans l'empire Romain. I. Les provinces Latines 128ff.
 

[P. Riewald.]
 

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